Suicidio assistito, un grande passo indietro

Nell’ultimo caso, fortemente mediatizzato, di suicidio assistito si è tornati ad usare toni estremi e allarmistici che ignorano i progressi avvenuti con le cure palliative. Un tentativo di dare una ulteriore spallata ai criteri ragionevoli offerti dalla corte costituzionale nel 2019  e in discussione nell'iter della legge in discussione in Parlamento
Marco Cappato si autodenuncia nella caserma di via fosse Ardeatine dopo il suicidio assistito di Elena in Svizzera. Foto LaPresse

Di fronte  drammi umani come quello della signora Elena, morta in Svizzera per mezzo di una pratica di suicidio assitito, i commenti sono inutili. D’altra parte la sua storia personale è stata volutamente oggetto di una mediatizzazione (lo dimostra anche il suo video diffuso dall’Associazione Luca Coscioni) che fa riflettere su alcuni aspetti di linguaggio.

Un passo indietro di mezzo secolo: erano gli anni ’70 quando grandi figure laiche come Gigi Ghirotti, giornalista che raccontò la sua storia di malato oncologico, e Vittorio Ventafridda, pioniere della terapia del dolore e fondatore delle cure palliative in Italia,  iniziarono il lungo viaggio per scardinare la congiura del silenzio a partire dalle stesse parole (“il male incurabile” invece che “cancro”) e per infrangere il binomio “cancro” = “dolore insopportabile”.
Oggi sentiamo di nuovo risuonare espressioni che sono una fucilata per le migliaia di persone che ogni giorno affrontano con coraggio la loro personale storia di malattia: viene detto che il suicidio assitito era l’unica alternativa “alla condanna all’Inferno”. Come 50 anni fa, come se niente fosse stato fatto in tutti questi decenni.
Nei tanti commenti alla nuova “sfida” di Marco Cappato, viene messo in risalto che questa volta è diverso, perchè rispetto alla sentenza della Corte Costituzionale del 2019 mancherebbe nel caso della signora Elena la dipendenza da mezzi di sostegno vitale (eppure non è la prima volta che un malato oncologico ben lontano dalla fase propriamente terminale della sua malattia è stato accompagnato in Svizzera, e di questo non si era mai parlato con la stessa enfasi).
È chiaro che si tratta di una voluta “spallata” rispetto ai vincoli previsti dalla Corte e presenti anche nella legge faticosamente in discussione al Senato dopo essere stata approvata alla Camera. Il dibattito è aperto.
Personalmente mi colpisce di più un altro aspetto, che non mi pare sia stato messo in evidenza dai commentatori nè da Cappato stesso: nella sentenza della Corte si parlava anche del requisito indispensabile che al malato fosse stato proposto e attivato un percorso di cure palliative: C’è stato? In che modo? Per quanto tempo? Non lo sappiamo.
Le cure palliative non sono onnipotenti, ma molto spesso (oserei dire quasi sempre) sono un’alternativa autenticamente umana, a supporto del malato e della sua famiglia, all’ostinazione in trattamenti inutili e al dolore e alla sofferenza. Sono quelle -se condotte pienamente, per mezzo di équipe formate e dedicate, a domicilio e in hospice- che permettono di concludere i propri giorni stringendo la mano dei propri cari (così dichiarava la signora Elena, vedendolo come un desiderio irrealizzabile).
 Quelle, cioè, che possono rendere “vita” anche gli ultimi tempi della vita. “Vita”, anche quando è più difficile, non “un inferno”.

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