Sud Sudan, uno Stato tutto da creare

Ufficializzata la secessione dal Sudan. Intervista al professor Vincenzo Buonomo sulle sfide che attendono il nuovo governo
Salva Kiir Mayardit presidente sud sudan

La dichiarazione ufficiale di indipendenza ci sarà il 9 luglio, ma la secessione del Sud Sudan dal Nord del Paese è ormai stata decisa. L’ha sancita, col referendum dello scorso gennaio, quasi il 99 per cento dei votanti, poco meno di quattro milioni di persone, che nei giorni scorsi hanno festeggiato con canti, balli e applausi scroscianti la nascita del nuovo Stato africano. Sulla carta, al Sud Sudan (questo è, almeno provvisoriamente, il nome) non manca quasi niente. C’è un presidente, Salva Kiir Mayardit (già vicepresidente del Sudan unito, nella foto al centro con il cappello), una costituzione provvisoria, una capitale, Juba, e ci sono circa dieci milioni di abitanti (di tradizione cristiano-animista), spalmati su tre province e dieci regioni. C’è una milizia che aspira a diventare esercito regolare e c’è, soprattutto, tanto petrolio.

 

L’entusiasmo, tuttavia, non impedisce di vedere i numerosi problemi esistenti. Innanzi tutto, mancano le infrastrutture, le case, le strade, le sedi governative. Il nuovo governo deve essere messo alla prova e sono tanti i punti interrogativi. Il referendum che si è svolto, infatti, non è stato accompagnato, come previsto dagli accordi di pace del 2005, dalla consultazione popolare ad Abyei, una zona di confine nevralgica, che per cultura è più vicina al Sud Sudan, ma che per la ricchezza dei giacimenti petroliferi è contesa da entrambi gli Stati. Una disputa che, a gennaio, ha provocato numerosi morti, tanto da spingere le autorità a rinviare il referendum. Resta poi il nodo del Darfur, il problema della ripartizione dei proventi derivanti dalla vendita del petrolio e il critico approvvigionamento dell’acqua. Tutte queste questioni, spiega Vincenzo Buonomo, ordinario di Diritto internazionale e preside della Facoltà di giurisprudenza della Pontificia Università Lateranense, «dovranno essere definite in questi sei mesi che ci separano dalla proclamazione ufficiale d’indipendenza. Un periodo di tempo decisamente molto breve».  

 

Professore, nonostante qualche incidente, questo processo di indipendenza finora sembra essersi svolto pacificamente.

«La secessione è il risultato di un processo lungo, che si è concluso con gli accordi di pace del 2005, con i quali è stato previsto il referendum per definire la nuova situazione politica. La costituzione di un nuovo Stato lascia molte incognite relative innanzi tutto all’economia del Paese. C’è poi un altro elemento, quello del passaggio delle persone dal Nord verso il Sud, perché ritengono, per motivi religiosi o etnici, di appartenere al Sud Sudan. Oltre alla gestione dei confini e agli spostamenti della popolazione, c’è un altro aspetto che, secondo me, non è stato tenuto nella giusta considerazione e riguarda le acque del Nilo, che attraversano il Sud Sudan e diventano una ricchezza, un valore di scambio».

 

Il Sudan ancora adesso si regge sulle entrate legate alla vendita del petrolio del Sud Sudan. Accetterà di farne a meno?

«Quasi tutto il bilancio dello Stato è basato sul petrolio. Non dobbiamo dimenticare che in quest’area la maggior parte delle persone vive con meno di un dollaro al giorno. C’è la questione del controllo delle risorse, che andrebbero utilizzate a vantaggio delle popolazioni locali. Anche gli scontri che si sono verificati in passato dipendevano da dispute sulla gestione di questa materia prima, come nel Darfur. Guardando questa zona, per il futuro si aprono scenari diversi a seconda di ciò che accadrà. Un Darfur indipendente dal Sudan significa spostare l’attenzione dal punto di vista economico dell’Occidente, con gli oleodotti che dal Sudan vanno al Mar Rosso. Se si sfruttassero al massimo i giacimenti, si farebbero passare gli oleodotti attraverso il Ciad e gli altri Stati, fino al Golfo di Guinea, con il conseguente spostamento di interessi. È una situazione che non riguarda solo il Sudan, ma anche gli altri paesi che utilizzano il suo petrolio».

 

Come la Cina?

«Come la Cina, che ha interessi abbastanza evidenti non solo nel corno d’Africa, ma anche nell’area Orientale. Se verranno assecondati gli interessi dell’Occidente, ci sarà lo spostamento degli oleodotti verso la Guinea, se si prevarranno gli interessi dei cinesi, permarrà la situazione attuale».

 

Come vede il futuro del Sud Sudan? Il presidente del Sudan, Al Bashir, ha accettato i risultati del referendum, il fratello invece ha sollevato dei problemi. Si annunciano nuove tensioni politiche?

«Non credo che ci potranno essere colpi di Stato o altro, perché dopo un conflitto sanguinoso con milioni di morti durato un decennio, adesso c’è una garanzia internazionale che dà la possibilità al nuovo Stato di potersi gestire da solo. È in atto una fase di transizione necessaria, nel corso della quale le forze militari del Sudan dovranno gradualmente lasciare il controllo del territorio all’esercito del Sud Sudan, che però ancora non esiste. Il presidente Salva Kiir Mayardit è l’emblema dell’autodeterminazione dalla popolazione. Ha raggiunto il suo obiettivo politico, adesso deve passare alla fase amministrativa».

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