Il successo infinito di “Ladri di biciclette”

Il genio di Vittorio De Sica, che rifiuta i soldi degli americani, pur di ricercare quella verità nuova che avrebbe fatto grande il nostro cinema nel mondo

Ci mise i soldi di tasca sua, Vittorio De Sica, talmente era sicuro del valore di Ladri di biciclette. Se ne infischiava dell’insuccesso commerciale di Sciuscià, che troppo presto, forse, nel ‘46, aveva sbattuto in faccia tanta verità, amara, integrale e dura, a un pubblico italiano ancora narcotizzato da vent’anni di commedie innocue: di sola evasione come erano quelle fasciste dei “telefoni bianchi”. Troppo repentino, forse, troppo brusco quel «ritorno alla realtà», come lo avevano definito i critici, ma anche importante, fondamentale, secondo lo stesso De Sica; che era stato giovane attore proprio nei “telefoni bianchi”: una piccola, grande stella nazionale, sempre innamorato, dolce, ingenuo, candido.

Adesso, però, in un’Italia finalmente libera, ancora ferita dalle bombe ma piena di speranza, egli sentiva urgente il bisogno di un cinema che seguisse il solco tracciato da certa giovane letteratura, che per prima aveva scoperto «una dimensione moderna della realtà» – parole dello stesso De Sica –, che si era mostrata «attenta alle minime cose, agli stati d’animo considerati troppo comuni».

E proprio il cinema, secondo il grande regista italiano, era il «mezzo più adatto per captare questa realtà»: la cinepresa, con la sua immediatezza che non lascia scampo, era per Vittorio uno strumento perfetto; «la sua sensibilità è di questa natura», spiegava ancora l’autore, che disse no agli americani, che pure Ladri di biciclette volevano produrlo, solo che intendevano farlo con Cary Grant al centro di tutto.

Impossibile, dunque, per De Sica: in quel modo sarebbe saltata in aria la ricerca profonda di realtà, quella verità nuova che avrebbe fatto grande il nostro cinema nel mondo. E infatti, il suo protagonista, l’imbianchino Antonio Ricci a cui rubano la bicicletta indispensabile per lavorare, De Sica se lo andò a pigliare nella fabbrica romana della Breda; aveva la faccia scavata e sofferente di Lamberto Maggiorani: un operaio vero, mentre il suo figliolo, il ragazzino con gli occhi brillanti e teneri, con il viso morbido e spaurito, del tutto indifeso e al tempo stesso coraggioso, reso già adulto dalla vita eppure tanto piccolino da volerlo abbracciare e proteggere per tutto il film, De Sica lo scovò nel quartiere popolare della Garbatella. Si chiamava Enzo Staiola: il piccolo Bruno che seguiva il suo papà per tutta Roma in cerca della vitale bicicletta, da Porta Portese a Piazza Vittorio, fino allo stadio domenicale pieno zeppo di tifosi.

Quando De Sica morì, nel 1974, il regista Ettore Scola – un altro grande maestro – volle omaggiare quel bambino straordinario, al pari dell’intero Ladri di biciclette, con uno dei suoi film più belli: C’eravamo tanto amati, dove uno dei protagonisti è un critico cinematografico che partecipa al telequiz di Mike Buongiorno, Lascia o raddoppia? e nel momento più delicato della sfida gli viene chiesto quale trucco usò, Vittorio De Sica, sul set di Ladri di biciclette per rendere così realistica e toccante la sequenza in cui al piccolo Bruno/Enzo Staiola, ormai consumato dalla vana odissea per una Roma povera e popolare, scendono le lacrime dagli occhi.

Ettore Scola, in un’altra sequenza del suo film – quella in cui in un cineforum di provincia alcuni spettatori si lamentano di un cinema italiano che ficca troppo il naso nei guai dell’Italia del dopoguerra –, ricorda che all’inizio la vita non fu facile neanche per il capolavoro di Ladri di biciclette. In effetti, non subito il pubblico italiano ne comprese la bellezza e il senso, come già accaduto per Sciuscià, e addirittura al Metropolitan di Roma, qualcuno, pare, chiese indietro i soldi del biglietto.

Ci volle Parigi, poco dopo, con una proiezione affollata e commossa e con l’abbraccio del regista René Clair a Vittorio De Sica, per dare il via al successo infinito di Ladri di biciclette, che nel ’50, due anni dopo essere uscito, vinse un Oscar come miglior film straniero e che quest’anno, in grande forma, festeggia i suoi primi settant’anni di vita.

Il compleanno si festeggia al Festival di Cannes, super felice di riproporre questo gioiello a tutto il mondo tra pochi giorni, classico e nuovo di zecca dopo il restauro della cineteca di Bologna. Nella sua (quasi) perfezione, Ladri di biciclette, realizzato nel lontano 1948, oggi commuove ancora perché se è vero quel che scrisse Andrè Bazin – il padre di tutti i critici cinematografici –, e cioè che si tratta di «uno dei primi esempi di cinema puro: niente più attori, niente più storia, niente più messa in scena, cioè finalmente, nell’illusione estetica perfetta della realtà, niente più cinema», è vero anche che i sentimenti di un povero padre e di suo figlio, il loro rapporto d’amore unito alla crescente disperazione di entrambi, scatenano emozioni che penetrano sotto la pelle dello spettatore e lì rimangono per tutta la vita.

Si percepisce il tremore di un imbianchino e di sua moglie che per comprare una bicicletta hanno impegnato quel poco che avevano, e si comprende come tutte le persone che i protagonisti incontrano lungo le piazze, i mercati e le vie di una Roma misera e sofferente, sono tante indistinguibili voci di un coro che narra la faticosa vita italiana dell’immediato dopoguerra.

Un momento che il Neorealismo cinematografico – grazie anche Ladri di biciclette – seppe immortalare magnificamente, con grande volontà e con pochi soldi. Nel finale del film, ad esempio, quando il padre trasfigurato dall’angoscia ruba in un attimo di incontrollabile smarrimento una bicicletta fuori dallo stadio, mentre la gente sta uscendo dagli spalti, di soldi per le comparse non ce n’erano, e chi vide l’attore/operaio Lamberto Maggiorani compiere quel gesto di finzione lo insultò e intervenne proprio come se tutto fosse vero.

Era il neorealismo, appunto, un incontro ravvicinato tra vita e cinema: gli spettatori di un anonimo Roma – Modena che diventano parte integrante di un eterno capolavoro cinematografico. Ladri di biciclette.

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