Sotto il cielo antico, sotto il cielo nuovo

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Il cielo antico era buio. E sotto quel cielo buio, l’uomo splendeva in tutta la sua bellezza, di una luce fiera ed eroica. Il cielo nuovo invece è luminoso. E sotto il cielo luminoso, l’uomo non appare più così bello. La luce del cielo ne mette in risalto la debolezza, la meschinità, l’orgoglio, a volte addirittura la malvagità, raramente la nobiltà e la purezza. Il cielo antico era dominato dagli dèi, di cui la Grecia ha declamato l’apoteosi. Il cielo nuovo riluce sul mondo cristiano, inaugurato da Gesù. Certamente, semplificare è rischioso. Nella semplificazione si lascia fuori troppa verità. Ma alle volte semplificare è utile per rendere in modo sintetico un’idea. Confrontare la visione dell’uomo che ci trasmettono le insuperabili tragedie greche di Eschilo, Sofocle ed Euripide con quella che ci propongono grandissimi autori della letteratura come Shakespeare e Dostoevskij, è certamente un azzardo. Ma l’immagine del cielo antico e del cielo nuovo, pur nella sua limitazione, può aiutare a cogliere qualcosa. Chi ne avesse tempo e voglia, potrebbe allora leggere il bellissimo saggio: Saggezza greca e paradosso cristiano, di Charles Moeller, lo studioso scomparso nel 1986 che ha dedicato la vita al rapporto fra cristianesimo e modernità, e che ne scrive in modo davvero aperto, con respiro pieno pur dentro una dichiarata prospettiva di fede. Quando un mortale lavora alla propria rovina, gli dèi l’aiutano a conseguirla scriveva Eschilo. Il mondo dei greci era dominato dal Fato. Gli dèi giocavano col Fato, si trastullavano col destino degli uomini che era totalmente in loro balia. Gli uomini, come marionette nelle loro mani, potevano solamente essere vittime delle passioni degli dèi: delle loro gelosie, dei loro amori, a volte semplicemente dei loro risentimenti o della voglia di fare del male per dimostrare la propria grandezza. In questo scenario, il cielo era buio, governato da un Olimpo distratto e fin troppo simile alla terra su cui avrebbe dovuto vegliare. La libertà dell’uomo consisteva unicamente nell’andare incontro al Fato con coraggio e fierezza. I greci avevano una visione troppo ottimista dell’uomo. L’uomo era bello, era virtuoso, amante della sapienza. Se commetteva dei crimini o delle azioni assurde, era perché veniva accecato dal volere degli dèi. Non era di per sé colpevole, perché nulla poteva contro le decisioni del cielo. Se la sventura lo colpiva non aveva scampo: Se Zeus ti ha dato questi mali, bisogna che tu li subisca, dirà Nausicaa ad Ulisse. Il male infatti, secondo i greci, non abitava nel cuore dell’uomo, ma dipendeva dai sentimenti, a volte bizzarri e crudeli, degli dèi. La tragedia greca aveva come tema centrale l’assurdità della sofferenza: in un mondo in cui gli dèi giocavano ciecamente col destino degli uomini, il tormento degli eroi li rende incredibilmente vicini a noi. O, come Antigone ed Edipo, soccombono con l’amara consapevolezza di non aver meritato la fine che tocca loro; o come Fedra splendono in tutta la dignità e fierezza umana andando incontro al destino con determinata rassegnazione. Nella Grecia antica, gli uomini sono più grandi degli dèi. O come disse uno studioso, i greci non ebbero gli dèi che si meritavano. Un salto di qualche secolo. E troviamo le tragedie di Shakespeare, i romanzi di Dostoevskij. Come appare brutto l’uomo, in quelle opere! Così diverso dall’ideale che ci hanno lasciato in eredità i greci. Ma è così solo a prima vista. Tra il mondo dei greci e quello dei due grandi maestri è trascorso un millennio e più di cristianesimo. Che ha impregnato di Vangelo il pensare umano e la conseguente visione dell’uomo. Con il cristianesimo il male non abita più nel cielo degli dèi. Abita nel cuore degli uomini. E questo perché l’uomo, come lo rivela la tradizione ebraico-cristiana, è libero. Libero. Capace anche del male, perché nel suo cuore c’è pure la capacità di scegliere il male, di ribellarsi consapevolmente a Dio per scegliere i giochi dell’avversario, di satana, l’angelo della perdizione che sa camuffarsi di luce. Un personaggio come Jago che, nella tragedia di Shakespeare, spinge il generoso Otello ad uccidere la candida Desdemona, non vuole solo fare del male, vuole deridere il bene. Un personaggio come il principe Stavrogin, ne I demoni di Dostoevskij, che abbaglia tutto il villaggio con la luce malvagia delle sue idee nichiliste; che per noia prima viola, poi porta al suicidio l’ingenua fanciulla Matrioscia; che spinge ad uccidersi il giovane idealista Kirillov; che porta Satov addirittura a convertirsi all’ortodossia per farlo poi ammazzare dai compagni; che guarda con annoiata freddezza il compimento della sua opera mostruosa, il villaggio che viene incendiato… Personaggi come Jago e Stavrogin erano sconosciuti ai greci. Neppure concepivano che l’uomo fosse capace di tanta malvagità. Preferivano attribuire la colpa agli dèi dell’Olimpo. Ma il cristianesimo dimostra che non è così. La grandezza dell’uomo sta nel bagliore della sua vertiginosa libertà. L’uomo, nelle opere di Shakespeare e Dostoevskij, appare con tutta la sua capacità di compiere il male; ma è un essere libero. Libero anche di rivolgersi a quel cielo luminoso, nel quale non lo attendono più dèi indifferenti, ma un Dio che è padre, amore misericordioso. Se Dostoevskij ci porta negli anfratti del male è per farci vedere la grandezza dell’uomo cristiano: se la sua libertà lo può portare così in basso, lo può anche portare incredibilmente in alto; dove la misericordia lo può salvare: …Io penso, signori, che sia accaduto questo, fosse mia madre che implorava Dio per me, fosse uno spirito celeste che mi baciava in fronte in quell’istante, non so, ma il demonio è stato vinto… io non ho ucciso , dirà in tribunale Dimitri Karamazov. Non verrà creduto; ma lui che stava per ammazzare il padre, non lo uccise. E attribuisce questo fatto all’intervento del cielo. Nei greci era impensabile! Per ogni autore greco, Dimitri, condannato dal cielo alla passione omicida, avrebbe ammazzato. Leggendo le biografie dei grandi santi, sembra che alle volte esagerino, quando si dichiarano peccatori, i peggiori dei peccatori. Pare che si lascino andare ad una eccessiva, quasi fastidiosa, falsa modestia. Come possono dire così! Tutti vedono che hanno vissuto una vita esemplare. Perché, allora, insistono sui loro peccati?. Perché dicono la verità. Più ci si avvicina alla luce, più si notano i difetti. Ogni nostra azione, anche la più santa, proprio perché umana, è impastata di egoismo, di qualche forma di avidità. Di solito, neanche lo notiamo. Ma il santo lo nota, e ne soffre. Con un’intuizione genialissima, che nella teologia cristiana trova l’equivalente nella realtà della comunione dei santi, Dostoevskij vedeva cosa vedono, appunto, i santi: che siamo tutti solidali, l’uno con l’altro: Noi siamo tutti responsabili per ciascuno, e ciascuno è colpevole dinnanzi a tutti, per tutti e per tutto, ed io più degli altri, dirà prima di morire, il fratello dello staretz Zosima, ne I fratelli Karamazov. Questa solidarietà riscoperta ci apre alla possibilità di riparare l’uno per l’altro, di aprirci consapevolmente al cielo accogliente e misericordioso del cristianesimo. Alla luce del quale si comprendono le parole di Charles Moller: Certamente la bellezza dell’uomo, tanto amata dai greci non l’abbandoniamo; soltanto sappiamo che dobbiamo ritrovarla, riconquistarla. Anche la Grecia deve essere riscattata.

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