Sono solo un link

Antonio Catania, attore di lungo corso, è don Pino nel film “Ho amici in Paradiso”, dove sono protagonisti i ragazzi diversamente abili del Centro Don Guanella

«Non devo recitare ma assecondare la mia natura per essere il più naturale possibile anche interpretando un ruolo. Sono un link tra me e il personaggio». Attore di lungo corso – quasi 50 i suoi film –, Antonio Catania lo ricordiamo in pellicole come Mediterraneo di Gabriele Salvatores, Pani e tulipani di Silvio Soldini, La leggenda di Al, John & Jack di Aldo Baglio, Giovanni Storti, Giacomo Poretti, Massimo Venier. Ora è protagonista in Ho amici in Paradiso di Fabrizio Maria Cortese, in uscita nelle sale a febbraio, dove interpreta don Pino Venerito, il vero direttore del Centro Don Guanella che segue persone affette da disabilità mentali e fisiche. La novità è che sono proprio loro i protagonisti della pellicola. Il cast artistico è formato da: Carmelina (Daniela Cotogni), ragazza affetta da sindrome di Down, Salvatore (Paolo Mazzarese) e Marcello (Giorgio Mazzarese) affetti da gigantismo, Natale (Michele Iannaccone) con disabilità mentali, Giacomo (Mariano Belvedere) affetto dal morbo di Pot, Fabrizio (Stefano Scarfini) ossessivo compulsivo, Nicola (Rrok Keci) paraplegico, e Roberto (Paolo Silo) che soffre di epilessia.

Che tipo di sacerdote interpreti in “Ho amici in Paradiso”? Il film parla del cambiamento di Felice Castriota, un commercialista salentino che per arricchirsi ricicla i soldi della malavita. Arrestato, viene affidato ai servizi sociali al Don Guanella. Io interpreto don Pino, un uomo con molte responsabilità. Lui mi ha insegnato che questi ragazzi hanno bisogno soprattutto di affetto, calore umano, abbracci anche se occorre durezza, fermezza, severità. Per me è stata una lezione perché recuperare questa dimensione amorevole vale per tutti. E poi ti ritorna indietro. Questa è stata la mia scoperta.

 

L’esperimento di recitare con persone diversamente abili è riuscito? Devo dire di sì, anche perché da due anni hanno lavorato in laboratori teatrali con il regista Fabrizio Maria Cortese. Quando, poi, ho visto il film, sono stato sorpreso dalla qualità. Era un’avventura, un’incognita, invece, tutti hanno risposto in maniera eccellente.

 

Mescolare umorismo e problematicità, come in “Quasi amici”, perché funziona? Se vivi una situazione critica e riesci a vedere il lato positivo e divertente, questo ti dà la carica giusta per superarla. Non è ottimismo stupido, ma ti dà un’energia positiva che ti porta a superare i problemi perché non cancella la speranza dal tuo orizzonte. È vedere il bicchiere mezzo pieno e significa non abbattersi mai, trovare sempre un sorriso anche nei momenti difficili.

 

So che ti piace sorprendere. C’è qualche aneddoto della tua carriera… Tante volte guardi la tv e tutto è così ovvio, si sa cosa accadrà, è tutto scritto. Mi piace sorprendere. Incidenti, cambiamenti all’ultimo secondo, errori. Sono tutti i momenti che preferisco. Danno una marcia in più al film. Nel film di Ficarra e Picone, L’ora legale, dove interpreto un vigile, prima di fare una multa, mi metto la penna in bocca e tolgo il cappuccio con i denti. È un gesto non previsto, ma diventa un tormentone.

 

Il tuo è un lavoro precario e pochi riescono. Lo consiglieresti a un giovane? Diventare un attore, per me, è stato assolutamente casuale. Anche se il teatro è terapeutico e dovrebbe essere insegnato come materia obbligatoria nelle scuole. Dà la possibilità di esprimerti, di sperimentarti, di confrontarti con un pubblico. A me è servito molto perché ero molto timido e mi ha giovato. Perché diventi un mestiere bisogna anche fare gli incontri giusti. Non so se lo consiglierei a chi comincia adesso. Dovrebbe avere, evidentemente da subito, un grande talento con capacità visibili. Se ce la fai, è il mestiere più bello del mondo. Se vivi a mezz’asta, diventa faticoso.

 

Cosa ti piace dell’arte dell’attore? Nella vita si accumulano tanti difetti. Quando reciti, ti devi liberare da tutto il tuo bagaglio psicologico per poter essere naturale, spontaneo. Per questo recitano bene gli animali, i bambini: perché non hanno filtri. Già solo riuscire a fare questo è terapeutico perché ti serve per liberarti da tutto ciò che è in più e poi recitare è un grande gioco, anche se si parla, a volte, di cose molto serie.

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