Social bene(male)detti

In un sistema informativo in cui ormai non ci sono più solo i grandi organi di informazione, ma anche il citizen journalism, il giornalismo dei cittadini, che, se è vero che nel 99% dei casi non rispetta le regole di un buon giornalismo, ha però il pregio di moltiplicare a dismisura le fonti cui la buona informazione può attingere.

In occasione del Covid-19 è stato detto e scritto di tutto sui social, strumenti inventati a cavallo del vecchio e del nuovo millennio da feconde menti scientifiche e umaniste al contempo, intelligenze indubbiamente geniali che hanno saputo intuire che l’ambiente digitale aveva incredibili potenzialità sociali.
A loro modo questi personaggi sono stati dei profeti-imprenditori, che hanno conosciuto successi strepitosi, arrivando a mutare l’economia mondiale, creando imprese non più multinazionali o internazionali, ma transnazionali, che hanno finito col mettere in crisi la politica e il diritto. Senza parlare ovviamente delle
conseguenze antropologiche, pedagogiche, psicologiche e mediche di un tale tsunami comunicativo. Nella prima parte dell’emergenza pandemica, tali social hanno conosciuto momenti di crescita esponenziale, che hanno messo a dura prova i server delle D10, le Digital 10 nel mondo. Altre società invece emergenti, come Zoom, software per conversazioni video multiple, hanno avuto gravi problemi di sicurezza e di sviluppo. Ci si è accorti che i social, senza che ce ne accorgessimo, erano diventati la direttrice della nostra comunicazione, personale e meno personale. Senza social ci sentivamo ostracizzati, isolati, incapaci di fare alcunché, persino di pensare. Ecco allora che ci siamo gettati anima e corpo su questi strumenti per capire quel che stava succedendo, ritenendo che i fatti non fossero raccontati adeguatamente dalle tv di Stato e dai grandi network privati. Abbiamo così creduto a ripetute fake news inenarrabili, come dei pivelli, ci siamo ancorati al «ho letto che…», senza ricordare che ormai è necessario precisare la fonte: «Ho letto su Facebook che…». Ed ecco che poco alla volta i social si sono essi stessi ricollegati al sistema mediatico più tradizionale, proprio quello considerato obsoleto e poco veritiero, per avere in qualche modo una patente di autenticità, una “benedizione” mediatica interna al sistema stesso dei media: «Ho letto su Facebook che riporta il New York Times…». Ma ora, nella “fase americana” del Covid-19, il pendolo sta tornando di nuovo dalla parte opposta: i media tradizionali raramente appaiono indipendenti, molto spesso sono sottoposti ai governi o alle forze partitiche, al punto che si avverte la necessità di riequilibrarli con una buona dose di quell’opinione pubblica diffusa che ormai si esprime principalmente nei social di vecchia e nuova generazione. Ci risiamo. Ben presto il pendolino ripartirà dall’altra parte. Ed è un bene, in un sistema informativo in cui ormai non ci sono più solo i grandi organi di informazione, ma anche il citizen journalism, il giornalismo dei cittadini, che, se è vero che nel 99% dei casi non rispetta le regole di un buon giornalismo, ha però il pregio di moltiplicare a dismisura le fonti cui la buona informazione può attingere. Ormai l’infosfera è un sistema misto, in cui l’informazione giornalistica professionale si mescola con quella amatoriale, in un reciproco controllo. L’importante è non pretendere che i primi facciano i secondi,
e viceversa.

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