Sistemi elettorali, tra manipolazioni e bene comune

Tra maggioritario e proporzionale. Una guida  puntate sulle ragioni e le origini delle differenti leggi elettorali vigenti nei Paesi democratici in vista delle scelte che è chiamato a compiere il Parlamento italiano.

Le leggi elettorali sono tra i principali strumenti attraverso cui si manipola la politica: si può farlo in senso positivo, quanto in senso negativo. Il problema della democrazia è trasformare una certa quota di consensi in seggi, in modo che coloro che vi siederanno rappresentino veramente una volontà popolare che coincida il più possibile con l’interesse generale, o, vogliamo dirlo con una formula migliore, con la ricerca del bene comune.

Per raggiungere questo obiettivo è necessario per forza di cose mettere in atto meccanismi che operino quella trasformazione, che non è automatica. Possono essere meccanismi, per così dire virtuosi, ideati per ottenere un buon risultato nel senso democratico, oppure essere utilizzati in senso  manipolativo per ottenere un vantaggio indebito per la propria parte.

Per capire l’ennesima telenovela su una riforma elettorale che va in scena in Italia dobbiamo partire da due prospettive diverse. La prima, che svolgiamo in questo articolo, è capire, almeno a grandi linee, a quali logiche rispondono i sistemi elettorali classici. La seconda, che svilupperemo in un secondo contributo per Città Nuova, è cercare di spiegare le alchimie a cui si ispirano in questi momenti i partiti politici italiani.

Vediamo dunque i sistemi elettorali classici. Il primo ad essere inventato nella storia è stato il maggioritario semplice: in una competizione viene eletto chi ha un consenso maggiore, fosse anche di un solo voto. Pochi tengono presente che l’origine dei sistemi elettorali è nel mondo ecclesiastico. Quando i vertici del potere si trasmettevano per sangue (di padre in figlio), la Chiesa fondata sul celibato non poteva riconoscere quel principio. Di conseguenza il vertice doveva essere determinato con un processo di scelta (elettivo) in cui ovviamente si supponeva che fosse lo Spirito Santo a guidare la formazione della volontà della comunità. Così era in origine per i vescovi, sempre per i papi e per i vertici degli ordini religiosi.

Il voto non era una espressione di volontà individuale, ma uno strumento per permettere che agisse lo Spirito, tanto è vero che dell’aritmetica dei voti si doveva perdere memoria: nelle elezioni del papa ancor oggi per questo le schede vengono bruciate immediatamente dopo essere state scrutinate. L’eletto non rappresenta chi lo ha votato, ma tutto il corpo sociale che deve presiedere.

Bene, questo principio si è trasmesso alla scelta dei rappresentanti dei “corpi” così com’era nel primo diritto elettorale: importava fino ad un certo punto chi fosse il vincitore, perché in ogni caso la sua comunità (piccola e limitata) lo avrebbe controllato e lui si sarebbe sentito obbligato ad agire in conformità al suo volere.

Questo meccanismo, che è appunto il maggioritario semplice (“il più votato vince il collegio”), è stato applicato nei sistemi anglosassoni (inglese ed americano) che per primi si sono basati sulla tesi che non esiste un “sovrano” sopra il popolo, ma che re e popolo (rappresentato dal parlamento) governano insieme.

Ovviamente questa “teoria” ha ben presto fatto acqua, perché l’elettorato diveniva molto ampio, i collegi elettorali erano comunità sempre più astratte per la loro dimensione, l’entrata in scena di una società che si organizzava in partiti stabili rendeva difficile che un eletto davvero rappresentasse tutti, anche coloro che non lo avevano votato (tendeva invece a rappresentare il legame col suo partito e magari con la relativa ideologia).

In conseguenza si è ritenuto che un meccanismo che consentisse di vincere anche rappresentando una minoranza fosse poco “rappresentativo”: infatti nel maggioritario semplice chi vince può avere anche un numero piuttosto limitato di voti, se tutti gli altri voti si sono dispersi su un numero di candidati ciascuno dei quali ha ricevuto meno voti di lui. Per ovviare a questo gap di rappresentatività si è introdotto il sistema maggioritario a due turni: nel collegio un candidato risulta eletto solo se raccoglie almeno il 50%+1 dei voti. Se nessuno raggiunge quella soglia si avrà un ballottaggio fra i due candidati più votati, sicché c’è la ragionevole presunzione che l’eletto rappresenterà per forza di cose la maggioranza degli elettori. È il sistema attualmente in vigore in Francia, e in Italia nella elezione dei sindaci.

Tuttavia anche il sistema maggioritario a due turni di fatto rende non rappresentati i voti delle minoranze, essendo poco realistico immaginare che chi ha avuto i voti della maggioranza voglia davvero rappresentare anche i suoi oppositori (che spesso sono su posizioni difficilmente conciliabili con le sue: cose abbastanza normale in competizioni molto ideologizzate).

Ecco che per ovviare a questo inconveniente si sono introdotti i sistemi di rappresentanza proporzionale (che possono avere molte variabili tecniche su cui non posso ovviamente entrare). Il principio in questo caso è che i seggi parlamentari siano assegnati in proporzione alla quota di consensi che un soggetto raccoglie: chi ha, per dire, il 15% dei suffragi, avrà il 15% dei posti in parlamento.

In origine il sistema è stato pensato per Paesi in cui vi era una pluralità di componenti etniche, per esempio il Belgio e la Svizzera. Si evitava che una componente etnica fosse sopra rappresentata e si otteneva invece che ciascuno avesse garantita la sua porzione di presenza nella gestione della cosa pubblica. In seguito, abbastanza presto in verità, questo principio è stato applicato ai partiti, che erano istituzioni che “dividevano” in quote le appartenenze civili (e che spesso erano o cercavano di essere comunità abbastanza totalizzanti): ad ogni partito una quota di rappresentanza che “fotografava” la sua quota di occupazione dello spazio socio-politico.

Lo sviluppo di grandi democrazie di massa, l’emergere di modalità di organizzazione e manipolazione dell’opinione pubblica (dalla stampa, alla radio e televisione, ad internet), la mobilità sociale per cui le persone si sentono sempre meno legate a vita a determinate collocazioni geografiche, hanno reso impossibile disporre di sistemi elettorali che veramente rispondessero ai loro modelli originari.

Qui la seconda parte dell’articolo.

 

 

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