Dopo la fine del regime degli Assad, durato 53 anni compresi 14 di guerra, tra i primi atti del leader dei ribelli vincitori divenuto presidente ad interim della Siria, Ahmed al-Sharaa, c’è stato lo scioglimento ufficiale, il 29 gennaio 2025, del gruppo islamista Hts (di cui al-Sharaa era il capo) e di altre milizie alleate. I miliziani “congedati” sono confluiti nel nuovo esercito siriano. Ma altre milizie che erano alleate con Hts hanno mantenuto una loro autonomia: gruppi armati che talvolta collaborano con il nuovo esercito, ma che sono anche incontrollabili.
Nonostante tutto, Al-Sharaa ha dichiarato, e ribadito più volte, il suo impegno per la ricostituzione dello stato siriano nel rispetto delle minoranze: etnie, fedi, confessioni e gruppi. Affermazioni guardate con diffidenza e denigrate dal pianeta islamofobo occidentale, governo israeliano in testa, dato il passato di Al-Sharaa (all’epoca Al-Jolani), che è stato a lungo in relazione e sintonia con al-Qaeda, poi con lo Stato Islamico, per tornare quindi a collegarsi con al-Qaeda al tempo del Fronte al Nusra e infine fondando il gruppo islamista autonomo Tahrir al-Sham (Hts), che ha coalizzato intorno a sè diverse milizie in buona parte filoturche.
In questi primi 6 mesi di presidenza, Al-Sharaa ha però mostrato un notevole impegno pragmatico per la ricostruzione politica della Siria, più che per imporre la sharia. Lo indicherebbero anche i suoi variegati incontri internazionali: con l’Emiro Al-Thani del Qatar, il saudita Bin Salman, il turco Erdogan, il russo Vladimir Putin, l’ambasciatore cinese Shi Hongwei e, a maggio, con Donald Trump. Ottenendo fra l’altro la sospensione di buona parte delle sanzioni che strangolavano la Siria.
È evidente che nel disastro di un Paese frantumato sotto tutti i punti di vista, non bastano intenzioni, impegno e apertura a risollevare una situazione complicata e inestricabile. Ma la politica improvvisata degli ex ribelli divenuti governanti sta tentando in tutti i modi di andare oltre lo scoraggiante caos. Dopo aver varato il 13 marzo una Costituzione provvisoria, Al-Sharaa ha promesso che appena possibile avrebbe indetto elezioni parlamentari. È di fine luglio l’annuncio a sorpresa che le elezioni si terranno a metà del prossimo settembre.
Ma i siriani potranno votare liberamente? Forse, quasi, difficile ma… La Costituzione provvisoria prevede infatti che gli elettori potranno designare 140 deputati, mentre i rimanenti 70 saranno nominati dal presidente. Non è il massimo, ma con tutti i problemi che ci sono, non sono certo queste quote il più grave. Per esempio: non esiste una normativa sui partiti, anzi in pratica di partiti non ce ne sono proprio.
In compenso le fazioni armate abbondano, ma è difficile capire quali e se voteranno. Ci sono poi domande che indubbiamente non troveranno risposta entro settembre, quali per esempio: chi potrà votare dei 5-6 milioni di siriani rifugiati o profughi all’estero e dei forse altrettanti milioni di sfollati interni? Insomma, su una popolazione stimata in circa 25 milioni di siriani, ad essere ottimisti ben più della metà degli aventi teoricamente diritto al voto non sarà certamente in grado di votare.
Il governo ha se non altro garantito la presenza di osservatori internazionali, ma non si è parlato concretamente dei criteri di autonomia per le regioni che non sono sotto il controllo governativo, cioè il nordest curdo (Rojava) e il governatorato di Suwayda a maggioranza drusa. I territori ex siriani occupati dalla Turchia a nord, e le aree desertiche ad est dove imperversano ancora le bande dello Stato Islamico restano al di fuori di ogni controllo, così come parecchie zone in cui si annidano gruppi armati perlopiù sunniti contrari ad ogni dialogo, come Saraya Ansar al Sunna, che sarebbe una scheggia islamista intollerante uscita da una costola di Hts. Miliziani di questo gruppo affermano di avere partecipato a marzo insieme ad altre forze, alcune legate al governo, agli attacchi contro gli alawiti, sterminando almeno 1.500 persone.
Per intanto (da metà luglio) non si sarebbero ancora conclusi i duri scontri fra drusi, beduini e forze governative nel governatorato di Suwaida, che ha visto l’intervento dell’aviazione israeliana e un bilancio provvisorio di almeno 1.000 morti. Nonostante vari interventi di cessate il fuoco mediati dagli Usa. Il governo israeliano non intende infatti consentire al neo esercito siriano di entrare nei governatorati di Suwaida e Daraa, e più in generale di avvicinarsi ai territori drusi (siriani) del Golan, da tempo occupati da Israele e recentemente ampliati.
Non importa che il presidente siriano abbia ribadito più volte che che non vuole un conflitto con Israele e che intende normalizzare i rapporti con Tel Aviv. La scusa di Netanyahu per intervenire e bombardare il bombardabile è stata: “Stiamo operando per salvare i nostri fratelli drusi”. In altri termini, significa che i drusi israeliani, partner storici dell’apparato di sicurezza di Tel Aviv, hanno fatto pressione per un intervento pro-drusi siriani, cioè contro beduini sunniti e forze governative considerate islamiste.
Al contrario, la maggioranza delle comunità druse siriane e i loro leaders hanno respinto la versione israeliana secondo cui i raid aerei di Tel Aviv in Siria servirebbero a “proteggere” loro. Secondo loro, infatti, servirebbero piuttosto a “sostenere” le mire di un ambiguo personaggio: il druso Hikmat al-Hijri, capo di una minoritaria fazione drusa filo-israeliana che aspira alla leadership sui drusi di Suwaida. Al-Hijri è anche accusato di collusione con un sedicente Consiglio militare di Suwayda (Smc), una fazione autonomista costituita da ex ufficiali del regime siriano, che sarebbero implicati anche nel commercio di captagon, la droga di stato del deposto regime.