Siria, chi combatte ad Afrin e perché

Mentre a Sochi, in Russia, comincia la conferenza per il futuro della Siria senza opposizione ad Assad, senza curdi, ma anche senza Washington, Parigi e Londra, continua l’offensiva turca nel Kurdistan siriano. Cosa succede sul terreno?
AP Photo

L’operazione “ramoscello d’olivo” iniziata la settimana scorsa (ma era nell’aria da almeno due anni) ha lo scopo di sottrarre il controllo della regione di Afrin alle forze curde delle Ypg (Unità di protezione del popolo), bollate senza condizioni dai turchi come terrorismo organizzato. Insieme all’esercito turco (nessuno sa con quanti uomini sia presente, comunque fornisce soprattutto copertura aerea, artiglieria e logistica) l’operazione è portata avanti da almeno 20 mila combattenti siriani contrari al regime governativo di Bashar al-Assad. Si tratta di milizie affiliate a vari gruppi riuniti sotto la sigla di Esercito siriano libero (Fsa). L’Fsa ha già partecipato all’operazione “Scudo dell’Eufrate” (2016-2017), un’iniziativa militare turca condotta in territorio siriano, nominalmente per contrastare il Daesh, di fatto per opporsi ai curdi. Pur se riuniti sotto un’unica sigla, i gruppi e le unità militari filo-turche del Fsa sono contraddistinte da ideologie molto diverse, ma fanno tutte parte del Coordinamento Hawar Kilis, una coalizione militare anti-governativa con base in Turchia e per diverso tempo finanziata dagli Usa.

Le principali denominazioni filo-turche che partecipano alle operazioni militari nella regione di Afrin sono tutte più o meno reduci dalla battaglia di Aleppo. I gruppi principali del Fsa sono Il Fronte del Levante (Jabhat al-Cham), islamista, nato dalla fusione di piccoli gruppi ribelli molto diversi (salafiti, islamisti, nazionalisti ed altri), che raggruppa forse 7 mila combattenti; la Legione del Levante (Faylaq al-Cham), sorta a Idlib, con altri 7 mila combattenti dichiarati: si tratta di un gruppo islamista moderato vicino ai Fratelli musulmani, sostenuto da Turchia e Qatar; la Divisione al-Hamza, che nasce dalla fusione di numerosi gruppuscoli ribelli, con circa 1.600 combattenti, soprattutto turkmeni; la Divisione Sultan Mourad, che conta circa mille uomini, con un orientamento neo-ottomano; la Brigata al-Moutassem, con circa mille combattenti non islamisti che propugnano la fondazione di una Siria democratica.

Dall’altra parte c’è l’Esercito del Rojava, o Kurdistan siriano: le unità Ypg e le brigate femminili Ypj. A partire dal 2014, le unità Ypg-Ypj sono state coinvolte nella guerra contro il Daesh, divenendo il principale gruppo armato sostenuto dagli statunitensi in Siria. Nel 2015 sono state il nucleo portante per la costituzione delle Forze democratiche siriane (Sdf) nate dall’accordo fra 13 gruppi e composte di combattenti in maggioranza curdi, ma anche siriaci, assiri, turkmeni e arabi.

La regione di Afrin è un piccolo territorio (per fare un paragone, grande come la provincia di Brindisi) a maggioranza curda che fa parte del Rojava, ma è rimasto isolato dal resto del Paese curdo a causa dell’interposizione nel 2016 dei turchi, penetrati in Siria con il preciso intento di bloccare la formazione di uno Stato curdo-siriano unitario ai confini meridionali della Turchia. Nel 2017 le Sdf (con l’appoggio logistico e aereo americano) hanno sconfitto il Daesh nell’Est della Siria, liberando Raqqa e raggiungendo Deir Ezzor da Nord, dove sono arrivati poco dopo, da Ovest, anche i governativi siriani.

Il Pyd (il Partito dell’unione democratica, favorevole ad una autonomia confederale nell’ambito dello Stato siriano) che governa la regione curda del Rojava ha stretti rapporti con il Pkk, la principale organizzazione militante dei curdi in Turchia. Questo legame tra curdi siriani e curdi turchi è l’ossessione del presidente Erdogan, che considera il Pkk un’organizzazione criminale e terroristica che va combattuta ed eliminata, senza possibilità di dialogo.

Una contraddizione evidente che balza subito all’attenzione è che entrambi i contendenti, sia l’Esercito siriano libero filo-turco che i curdi siriani e le Sdf sono stati o sono attualmente sostenuti e finanziati dagli Usa: il primo in funzione anti-Assad e i secondi in funzione anti-Daesh. In pratica entrambe le parti in conflitto nella guerra di Afrin sono state o sono sovvenzionate dagli statunitensi. All’ambiguità politica americana va anche accreditato il casus belli che ha “costretto” i turchi a invadere la regione di Afrin dopo l’annuncio statunitense di voler dispiegare e armare al confine turco-siriano una forza di controllo curda di 30 mila uomini, incrementando anche il contingente dei consiglieri Usa.

Di fronte all’invasione, il silenzio-assenso dei russi, che non vogliono inimicarsi Erdogan, è assordante. L’Iran dichiara che una presenza “permanente” dei turchi in terra siriana non sarà tollerata. Ma tra le righe si legge che forse una presenza temporanea si potrebbe accettare. L’invasione turca di un territorio che fa parte della Siria ha naturalmente scatenato la condanna e le minacce dei governativi siriani, ma tutto sommato anche a loro fa comodo, in questo momento, che l’attenzione dell’opinione pubblica sia distratta dal contemporaneo attacco che stanno portando ai jihadisti della sacca di Idlib e nel Ghouta orientale. Sorge il sospetto che non si tratti di coincidenze.

E intanto Erdogan ha annunciato che (ad una settimana dall’inizio dell’intervento militare) sono «almeno 343 i membri delle organizzazioni terroristiche» curde (Pkk e Ypg) e del Daesh «neutralizzati» nell’operazione “Ramoscello di olivo”.

Ma l’intenzione minacciata e dichiarata dal presidente turco è quella di procedere contro tutto il Rojava fino al confine iracheno. In tutto questo caos, chi ci rimette sono i curdi: patiscono il danno e la beffa, a Napoli si direbbe che sono stati “cornuti e mazziati”. Il numero dei fuggiaschi e dei profughi, in maggioranza curdi, sarebbe già ora nell’ordine di diverse migliaia di persone.

 

 

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