Simona, i suoi occhi

«Aveva solo quelli per comunicare». Angela Vigolo, infermiera, davanti ad un’impossibile sfida.
Angela Vigolo

«Simona non parla. È immobilizzata dalla patologia neurodegenerativa che nel corso degli ultimi sette anni le ha irrigidito i muscoli. Ha solo gli occhi per comunicare: per dire sì, li chiude entrambi; li tiene invece fissi quando vuole rispondere con un no. Non capisco ancora i suoni inarticolati che escono dalla sua bocca. Sarà un tentativo di saluto, un benvenuto? Si sta lamentando per i dolori che non le danno tregua? O forse mi sta chiamando perché vorrebbe chissà cosa? Non ho tempo per fermarmi su questi interrogativi. Rispondo: “Ciao, Simona, io sono Angela. Sono contenta di conoscerti”. I suoi occhi si chiudono per un istante in segno di consenso».

 

Fresca di laurea in scienze infermieristiche, Angela Vigolo trova lavoro nei Colli Romani, presso una piccola struttura, molto familiare, che ospita una quindicina di persone per lo più anziane.

 

«Un giro veloce negli ambienti, le presentazioni di rito. Beh, devo ammetterlo: qui anche i soliti convenevoli hanno un sapore di “casa”: malgrado i molti malanni di ciascuno, ci si sente pienamente accolti. Vedo che anche la relazione con i pazienti e tra i diversi operatori sanitari viene sollecitata da questo dinamismo. Immagino però che non è tutto scontato. Ci si dovrà mettere in gioco completamente, attimo dopo attimo. Intanto penso a Simona: sarà possibile costruire anche con lei un rapporto così? O sarà una relazione del tutto unidirezionale? E io, sarò capace di aiutarla?».

 

C’è tutto da imparare: i muscoli del suo viso, completamente irrigiditi, non lasciano trapelare nessuna emozione, nessuno stato d’animo. Come capire, ad esempio, quando scherza? Angela ha notato che qualche volta fa un piccolo rumore con le labbra, ma non riesce a comprendere se si tratti di un semplice richiamo, di un’espressione di dolore, o di contentezza.

«Ho già passato in rassegna ciò di cui può aver bisogno: dalla posizione dei cuscini all’ossigeno, dalla musica del lettore dvd da accendere, alle luci da spegnere… Simona non mi aiuta. Segue col suo sguardo penetrante ogni mia mossa. Oggi non riesco proprio a capire cosa mi chiede. Dopo un po’, un sospetto: “Simona, tu sai che ancora non capisco bene quando ridi… Non è, per caso, che mi stai prendendo in giro?”. E i suoi occhi si chiudono finalmente in un inequivocabile sì!».

Angela ricorda il suo grande impegno dei primi giorni nel cercare di conquistare la fiducia di Simona, mettendo in atto tutti gli accorgimenti che la sua preparazione professionale le suggeriva. «Mi rendo conto però che, prima di tutto, devo provare a vivere come lei: nello stesso modo con cui si consegna a me, così anch’io devo dedicarmi a lei senza riserve. Ciò vuol dire “dimenticare” la mia stanchezza, la fretta o il senso di inadeguatezza. E compiere ogni attività come se non avessi altro da fare.

«Ben presto, però, mi accorgo che non sono tanto io a infonderle fiducia, ma che avviene piuttosto il contrario. Mi sembra di cogliere in lei tutto lo sforzo per farsi capire e non farmi pesare i miei errori o la mia grossolanità».

 

È difficile raccontare le notti di un malato. Notti lunghe, scandite dal respiro di chi dorme o tenta di dormire. Notti interminabili per chi veglia accanto.

 

«È una notte piena di sofferenze. Simona, esausta, si lamenta e piange. Cerco, come posso, di darle almeno un po’ di sollievo: farmaci, posizione, massaggi. Facendo quello che lei non può più fare: asciugare una lacrima che, scendendo lungo la guancia, le solletica il collo; riposizionare gli occhialini per l’ossigeno o aggiungere una coperta sui piedi freddi… Spesso si tranquillizza subito e si riaddormenta, solo sentendo la mano poggiata sulla sua o una parola sussurrata all’orecchio. Ma questa notte non è così. Capisco che il mio compito di infermiera non è solo “assisterla”, ma prima di tutto vivere con lei il suo dramma. Finalmente, verso l’albeggiare, Simona si rasserena. Ogni tanto mi guarda. Anche io la guardo, in silenzio. Non servono tante parole».

 

I giorni scorrono, la pressione cala e il respiro diviene faticoso. Per non lasciarla mai sola, gli altri ospiti e il personale di servizio si alternano nella sua stanzetta. Di tanto in tanto, lei si fa presente e ricambia come può, stringendo le dita della mano o aprendo per qualche istante gli occhi, che ormai è troppo faticoso tenere aperti.

«Simona è ben consapevole del valore di quello che vive. Con l’andare del tempo, ho iniziato a ringraziarla ogni giorno, e più volte al giorno. Non so spiegarmene bene il motivo, ma qualcosa mi spinge a farlo.

«Arriva la sera del 10 ottobre. Alcuni familiari e amici si uniscono agli altri ospiti e al personale di turno intorno al letto e intonano qualche canto che sanno a lei particolarmente caro. Come nei giorni precedenti, si continua ad avvertire una forte sacralità della vita, la ricchezza di ogni momento condiviso, pur nell’appressarsi della morte. Pace. È quasi mezzanotte. Il polso si fa irregolare. Simona apre gli occhi e ammicca per l’ultima volta. A tutti è chiaro: è il suo donarsi sino alla fine, il suo “grazie”».

 

L’ultimo commento di Angela: «Non ho conosciuto Simona quando, anni fa, era instancabile, piena di risorse, di simpatia, punto di riferimento per tanta gente. Non ho neanche mai ascoltato la sua voce. Nonostante ciò, mi sono sentita così voluta bene, apprezzata, da poter affermare che ogni vita, in qualsiasi condizione, è un dono incommensurabile».

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