Silvia Romano è figlia nostra

La vicenda drammatica che ha coinvolto la giovane cooperante italiana solleva un legittimo dibattito su questioni da approfondire al tempo giusto. Ma ora è il tempo del rispetto. Un esempio che arriva anche da alcuni esponenti politici
Filippo Attili/Palazzo Chigi/LaPresse Silvia Romano accolta dalla madre al suo arrivo in Italia

Silvia Romano è viva e libera. Adesso che il suo volto conquista le prime pagine dei media, pesano le parole di quei pochi che, nei 18 mesi di prigionia, hanno cercato di tener viva l’attenzione sul destino di questa giovane connazionale rapita e scomparsa nella Somalia in preda al caos e alla guerra. Questa è la situazione allarmante dell’ex colonia italiana dove un governo federale, sostenuto dalla Turchia, non riesce a controllare vasta parte del territorio in mano agli estremisti islamici di al-Shabab.

Angelo Ferrari, giornalista dell’Agi, che sulla vicenda ha scritto un libro, ha mantenuto una costante attenzione durante la prigionia della ragazza perché il rischio evidente era quello di cancellare dalla memoria collettiva la preoccupazione per una donna privata della libertà e nascosta in zona di guerra. Un quadrante geopolitico in cui, dall’inizio dell’anno, si sono registrati più interventi militari statunitensi che in Siria e Iraq, come ci ha detto, tanto per farci un’idea, Ferrari che lavora al desk Africa della Agenzia Italia.

Il timore, sottolinea nel colloquio avuto per telefono, è stato quello di avere un altro caso poco noto di sequestro come quello di Giovanni Lo Porto, il cooperante siciliano rimasto ucciso nel 2015 da un drone Usa durante un blitz organizzato per colpire un capo terrorista nel confine tra Pakistan e Afghanistan.

Ciò che conta è la gioia per la salute della giovane tornata ad abbracciare la sua famiglia, mantenendo un istintivo pudore per tutto ciò che emergerà, nel tempo giusto, sulle circostanze della sua storia drammatica che riguarda una parte del mondo pressoché sconosciuta alla larghissima maggioranza dell’opinione pubblica.

Le domande, ovviamente, sono tante, a cominciare dalla questione della sua asserita conversione religiosa all’Islam.  Non si possono eludere in un dibattito pubblico che non può, tuttavia, violare l’intimità della vita di una persona della quale conosciamo il sorriso, ma non tutto ciò che ha dovuto affrontare in questi lunghi mesi di privazione della libertà

La chiesa italiana si è mostrata “madre e maestra” con le parole del cardinal Bassetti: «Il ritorno di questa ragazza è il ritorno di una giovane che tutti in questo momento sentiamo la nostra figlia».

Improntate a buon senso le reazioni di diversi esponenti della comunità islamica in Italia che hanno precisato di essere contenti della liberazione della giovane cooperante italiana rimandando ad un opportuno momento ulteriore la verifica di quanto avvenuto nella scelta della giovane che ora ha detto di chiamarsi Aisha.

Sono ragionevoli le riflessioni e le domande che si è posto su Repubblica lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun sulla libera scelta di una persona prigioniera di una banda di terroristi. L’ex direttore de La Civiltà cattolica, l’anziano gesuita Bartolomeo Sorge, va anche oltre affermando su twitter «Silvia è libera e musulmana. Dio ti ringrazio! Fa’ che questa sorella, dopo aver scoperto i “semi del Verbo” nel Corano, scopra Te “Verbo vivo” nel Vangelo, nella Chiesa, nei poveri che ama». Magistrale, infine, l’editoriale di Marco Tarquinio sull’Avvenire del 12 maggio da leggere integralmente.

Sul fronte politico, dopo le prime reazioni unanimi di soddisfazione per l’esito positivo del rapimento grazie ad un sistema efficiente di intelligence, sono insorti, come prevedibili, contestazioni e distinguo vari, sostenuti dalla stampa vicina all’opposizione.

Colpisce, in tale contesto, la posizione di Francesco Storace che, intervistato dall’Huffington post, ha detto: «Quel che non si capisce è che l’immagine su cui focalizzarci non è lei con il velo (indossato dalla giovane al suo arrivo in Italia, ndr), ma lei che è viva. Ho discusso in privato con alcuni. Ho mostrato a chi contestava questa posizione la foto di una salma avvolta dal tricolore per dei funerali di Stato. E gli ho chiesto: la volevate così? L’alternativa era tra che ritornasse viva o ritornasse morta».

L’esponente romano della destra sociale, già presidente della Regione Lazio e ora direttore de Il Secolo, che si è dichiarato «cattolicissimo (e quindi) a livello personale mi è dispiaciuta la conversione», ha poi precisato che «il valore della vita è sacro. La Romano ha meno anni di mia figlia, non era giusto in nessun caso farla morire. Ma si può sindacare sulla vita di una persona? L’Islam ha terroristi? Li prendi e li meni». Storace ha poi detto di provare per il ritorno di Silvia «la stessa gioia di Pippo Civati, che ogni giorno l’ha ricordata sui social».

È quanto mai significativo riscontrare questo onesto riconoscimento ad un avversario, accomunato anche dal fatto di essere al momento marginale, perché l’ex Pd e fondatore di Possibile è ora fuori dai riflettori dei grandi media e neanche ha deciso di far valere di essere stato probabilmente l’unico politico a tener viva l’attenzione su Silvia.

Angelo Ferrari era andato, a febbraio di quest’anno, a visitare il villaggio dove Silvia è stata rapita, trovando uno stato di tristezza diffusa e preoccupazione, anche perché, nel frattempo, l’attività della cooperazione si è interrotta in questo lungo periodo.

Ora ha risentito gli abitanti di questa piccola comunità pervasi da un clima di festa rappresentato soprattutto dal giovane liceale che Silvia stava aiutando a studiare e che si è opposto, inutilmente, alla violenza dei rapitori.

Da queste storie quotidiane, dall’affetto di chi ti vuole bene come una figlia o una sorella può ripartire, nonostante tutto, l’esistenza di una vita salvata.

 

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