Sicilia: mafia e gestione rifiuti

La relazione della commissione regionale antimafia presieduta da Claudio Fava ha condotto un’inchiesta sulle scelte politico-amministrative nell’isola. Una situazione di continua emergenza tesa a favorire gli interessi della criminalità, il cosiddetto “sistema Montante” che porta ad una «progressiva intronizzazione della mafia nel settore dei rifiuti»
Rifiuti (AP Photo/Salvatore Laporta)

La governance dei rifiuti in Sicilia era subalterna a un sistema di interessi illeciti collegati alla criminalità organizzata: un sistema di interferenze e di pressioni indebite, in gran parte riconducibili al cosiddetto “sistema Montante” e ad una rete politico amministrativa compiacente o distratta.

La commissione regionale antimafia, presieduta da Claudio Fava, ha concluso il lavoro d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti in Sicilia. La relazione ha scoperchiato una sorta di vaso di Pandora. «Negli ultimi vent’anni – si legge nell’introduzione –, funzione politica e ragione d’impresa si sono spesso incrociate lungo un piano inclinato che ha mescolato inerzie, inefficienze e corruttele». Una relazione di 180 pagine, un lavoro che ricostruisce la storia del “grande affare dei rifiuti” in Sicilia, con audizioni di politici, dirigenti, magistrati, giornalisti.

Già nel 2016, la commissione parlamentare nazionale presieduta da Alessandro Bratti, aveva usato parole dure, parlando di «progressiva intronizzazione della mafia nel settore dei rifiuti», cui «ha concorso una serie di scelte amministrative che, pur trovando radicamento e giustificazione nel regime emergenziale, hanno di fatto agevolato la penetrazione dell’impresa mafiosa».

Secondo i magistrati, le “sollecitazioni” che intersecavano fortemente le scelte dei governi della Regione, ma soprattutto gli apparati amministrativi erano tutti riconducibili al cosiddetto “sistema Montante”. Antonello Montante (nel frattempo condannato a 14 anni di carcere e ancora sotto processo), ex presidente di Confindustria Sicilia, aveva costruito una fitta ragnatela di collegamenti che governavano le scelte e gli appalti in Sicilia, con connivenze tra interessi pubblici e privati. Nel rapido succedersi dei governi e soprattutto degli assessori con delega all’ambente, molti tentativi vennero fatti per riportare la gestione dei rifiuti nell’alveo del controllo e dell’interesse pubblico. Senza successo. Il “sistema” ha continuato a governare le scelte in Sicilia «nonostante l’impegno con cui taluni assessori e più d’un dirigente hanno cercato di imprimere al ciclo dei rifiuti una giusta direzione di marcia e una limpidezza di pratiche amministrative, restando spesso isolati all’interno degli ingranaggi burocratici e delle scelte di indirizzo politico».

Un accordo a tavolino ebbe a governare le gare d’appalto per la costruzione dei quattro termovalorizzatori in Sicilia, che erano stati voluti dal governo Cuffaro (finora mai realizzati). Le offerte presentate dalle quattro ditte che si aggiudicavano le gare sembravano un abito confezionato su misura. La commissione Fava sottolinea «la perfetta simmetria delle quattro offerte che si aggiudicano l’appalto per i termovalorizzatori senza mai sovrapporsi». Nelle gare non erano stati individuati i siti dove realizzare le discariche, né era stata decisa la suddivisione dei vari comuni. «Invece i 390 comuni siciliani risultano geometricamente distribuiti nelle quattro proposte vincenti: nessun comune resta fuori, nessun comune risulta indicato in più di un’offerta, nessuna sovrapposizione. Una probabilità su quasi un miliardo: miracolosa preveggenza».

Ne nasce un’inchiesta giudiziaria ma, al termine, l’associazione mafiosa non viene provata, i magistrati parlano solo di turbativa d’asta. Ma le anomalie rilevate nella procedura sono molte. «Dalla mancata acquisizione delle certificazioni antimafia delle imprese concorrenti, all’aver affidato agli operatori la facoltà di scegliersi i siti ove ubicare gli impianti (non a caso localizzati in aree già nella disponibilità di quelle imprese). Molti anche gli “indizi sintomatici del collegamento sostanziale” tra i quattro raggruppamenti di impresa, come rileva la Procura: la ripetuta presenza di alcune società in tutti i raggruppamenti; la costituzione delle società (come già detto) presso lo stesso notaio, lo stesso giorno e con numeri di repertorio progressivi; l’aver prestato deposito cauzionale lo stesso giorno e presso stesso istituto di credito…».

La relazione Fava parla senza mezzi termini di «vassallaggio a cui è stata costretta in questi anni la funzione amministrativa, con procedimenti sensibili di cui pochi o nessuno avevano contezza, dirigenti delegati solo ad apporre la loro ‘firmetta’, giunte di governo spesso distratte o condizionate da presenze istituzionali esterne alla Regione. L’esito è stato quello d’aver conservato la centralità del conferimento in discarica come punto d’arrivo obbligato dell’intero ciclo, garantendo ai pochi proprietari delle poche piattaforme private altissimi margini di profitto».

Ancor più inquietante il quadro che emerge dalle parole del procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, anch’egli ascoltato dalla commissione. Scarpinato aveva parlato di «ciclo economico dello smaltimento dei rifiuti urbani in tutta la Sicilia, che ha progettato di intervenire sull’intero piano regionale di organizzazione dei servizi di smaltimento dei rifiuti urbani, per plasmarlo secondo i propri interessi, predisponendo progetti e piani che poi venivano accettati a scatola chiusa dagli enti pubblici e fatti propri». Tutto questo ha condizionato per vent’anni e forse più la gestione dei rifiuti nell’isola. Determinando costi esorbitanti, ritardi oggi difficilmente colmabili, una continua emergenza, anche questa assolutamente necessaria perché terreno fertile per agevolare e garantire «la penetrazione dell’impresa mafiosa».

Negli ultimi anni le inchieste avevano fatto luce su molti aspetti che, in Sicilia, erano “silentemente noti”. E che hanno fortemente condizionato anche le scelte di commissariare alcuni comuni. La «mafia dell’antimafia» come qualcuno ha definito il sistema Montante, con la sua rete di collusione che arriva persino al governo nazionale, riuscì persino a ridurre al silenzio alcune amministrazioni scomode, alcuni sindaci che avevano progettato scelte alternative per la gestione dei rifiuti. È il caso di Siculiana, Racalmuto, Scicli. In quei comuni la democrazia è stata sottratta probabilmente in ossequio a quell’apparato politico mafioso che governava l’isola. Oggi la storia di quei tre comuni deve essere riscritta. E nulla esclude che possa essere così anche per gli scioglimenti di altri consigli comunali in Sicilia.

 

 

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