Sibari e la nemesi dell’acqua

L’alluvione che, in Calabria, ha semisommerso l’antica colonia achea è il risultato della colpevole inerzia delle istituzioni che dovrebbero tutelare i nostri beni culturali, tra le principali risorse del territorio
toro cozzante sibari

Lusso e tracotanza furono, secondo Strabone, causa della rovina di Sibari, una delle più ricche e importanti città della Magna Grecia: da cui l’aggettivo “sibaritico”, a indicare una vita dedita ai piaceri e alle mollezze. Come terza causa di rovina per questa colonia achea fondata nel 720 a. C. tra due fiumi, il Crati e il Sibari, io aggiungerei proprio l’elemento acqua. Nel 510 a.C., infatti,  Sibari venne distrutta dalla rivale Crotone e in soprappiù – per cancellarne anche la memoria – sommersa dai vincitori, che a tale scopo deviarono il corso del Sibari, l’odierno Coscile

Fu ricostruita nello stesso luogo nel 444, con l’aiuto di Atene, e al nuovo impianto urbano progettato dal famoso architetto Ippodamo da Mileto venne dato il nome di Turi. Terza fondazione nel 194 ad opera dei romani, che la chiamarono Copia, ossia “abbondanza”.

Iniziati nel 1932 e con una ripresa a partire dal 1969, gli scavi hanno finora messo in luce strade, lussuosi edifici, un intero quartiere artigianale, le terme, il teatro e non solo. Scavi tutt’altro che compiuti, ma che hanno fruttato già una messe copiosa di preziosi reperti, confluiti nel Museo archeologico della Sibaritide. Tra le recenti scoperte, la statuetta bronzea del Toro cozzante (nella foto), simbolo della città, un capolavoro da accostare ai celeberrimi Bronzi di Riace.

Ma torniamo a parlare di acqua: sorgendo l’antica città sulla riva sinistra del Crati, sotto il livello della faglia acquifera, è stato necessario dotare il sito di un complesso sistema di pompe per preservarlo dalle infiltrazioni d’acqua. Sempre incombente però la minaccia di un’esondazione (già nel 2008 il Crati aveva rotto gli argini e per un pelo l’acqua non era arrivata fino all’area archeologica), e senza effetto i ripetuti appelli alle istituzioni per mettere in sicurezza una risorsa così importante per il territorio.

Finché il 18 gennaio scorso è avvenuto l’irreparabile: dopo due millenni si è ripetuta la catastrofe provocata dai crotoniati, e i mass media hanno diffuso le immagini spettrali del parco archeologico semisommerso da 20 mila metri cubi d’acqua per lo straripamento del fiume, ingrossato dalle piogge. Le idrovore hanno lavorato febbrilmente per svuotare 168 ettari trasformati in acquitrino dall’uniforme color giallastro, pur lasciando un minimo di umidità per evitare che – in attesa di un piano d’intervento efficace – il fango, seccandosi, diventi una crosta dalla quale sarebbe più problematico enucleare le antiche e fragili strutture, con danno irrimediabile di intonaci e mosaici. 

Fioccano ora gli appelli per salvare Sibari, le adesioni da tutto il mondo, le offerte generose di manodopera volontaria. Ma occorre analizzare gli errori, soprattutto l’assenza di un cultura della prevenzione. Occorrono mezzi economici e tecnici, e un cooordinamento di interventi affidato a specialisti. Speriamo che la sciagura capitata a questa che è tra le aree archeologiche più promettenti della Magna Grecia, valga a farla meglio conoscere e ad adeguatamente valorizzarla.

Sibari ci attende, anche se la visita sarà necessariamente rinviata.

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