Siamo un tantino più ricchi di quanto pensassimo. E allora?

Isituito un nuovo metodo internazionale per regolare la contabilità degli Stati, in base al quale il reddito prodotto annualmente in Italia risulta essere più alto di circa 1,5 per cento rispetto al vecchio metodo. Bene, ma ci vuol altro per alleviare la crisi
Banconote da 500 euro

Se in una cartiera la squadra incaricata dei lavori edili non si limita a fare la manutenzione al tetto, ma costruisce una nuova tettoia, un calcolo corretto del valore della produzione richiede di aggiungere al valore della carta fabbricata nell’anno anche il valore del nuovo immobile. Da quest’anno le norme europee che regolano la contabilità nazionale dei Paesi membri chiedono di comportarsi così anche per quanto riguarda le attività di ricerca (di base o applicata) e di sviluppo di nuovi prodotti e di nuovi metodi produttivi. Queste attività – riconosce un nuovo regolamento statistico internazionale che coinvolge anche gli Usa – hanno piuttosto la natura della costruzione della nuova tettoia che quella della manutenzione ordinaria.

Le prime stime dicono che – così ricalcolato – il Prodotto interno lordo (più in breve Pil, ossia il valore di quanto prodotto in un anno nell’intero sistema economico) crescerebbe di una percentuale dell’1-2 per cento nel caso dell’Italia, un po’ di più nel caso di Francia e Germania, addirittura del 5 per cento nel caso della Finlandia.

Prima considerazione. Peccato! Magari imprese e amministrazioni pubbliche italiane avessero dedicato più attenzione a ricerca e innovazione! Oltre ad aver svecchiato il nostro sistema produttivo, potremmo anche fregiarci di un Pil un po’ più alto nelle comparazioni internazionali.

Ma il latte versato e l’orgoglio nazionale non possono certo essere le preoccupazione principali in un momento in cui il Paese soffre di una acuta crisi economica. Chiediamoci piuttosto se questo ricalcolo ci aiuta in qualche modo a uscirne. La risposta è: probabilmente sì, ma molto molto poco.

In che modo? In primo luogo perché, andando a rapportare il nostro enorme debito pubblico al nuovo valore del Pil, il rapporto – che è il principale indicatore di squilibrio della finanza pubblica – scenderebbe da oltre il 132 per cento a circa il 131. Mmm! Non proprio un cambiamento decisivo!

In secondo luogo perché il rapporto tra il deficit pubblico dell’anno in corso e il Pil (altro indicatore di squilibrio) scende  – udite, udite! – dello 0,06 per cento. Dato che abbiamo l’impegno a non superare il 3 per cento, grazie alla revisione del calcolo possiamo permetterci di sforare di 600/700 milioni di euro in più di quanto avremmo potuto fare altrimenti. Meglio che niente, si capisce! Forse con quella cifra si può creare qualche decina di migliaia di posti di lavoro, cosa non certo risolutiva di fronte a quasi 3 milioni di disoccupati e più di altrettanti che il lavoro non lo hanno e nemmeno lo cercano.

Per poter ridurre significativamente questo numero, cosa urgente e prioritaria, occorre dell’altro: alleggerire le imprese di oneri fiscali e adempimenti vari, ridurre il costo del lavoro, riaprire i rubinetti del credito, tagliare la spesa pubblica improduttiva e indirizzarla a creare buoni servizi e buona occupazione, coinvolgere l’Unione europea in un programma straordinario di investimenti di interesse pubblico, vendere parte del patrimonio immobiliare pubblico inutilizzato (magari a qualche fondo ad hoc che coinvolga i cittadini). Tutte cose che è facile dire, ma che solo un impegno deciso e continuo di tutto il Paese – a cominciare da governo, Parlamento e partiti – potrà in qualche misura realizzare.

                                                                                                                                                    

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