Siamo o no multiculturali?

Era un periodo che non stavo bene, mi sentivo debole… sono andata in ambulatorio e il medico mi ha visitato e mi ha fatto fare delle analisi. Quando sono tornata, mi ha detto che avevo l’anemia: mi sono sentita morire, ho avuto una paura grandissima, non ho detto niente, sono tornata a casa e poi sono scoppiata a piangere. Continuavo a pensare a mia zia in Africa, che aveva appena partorito e aveva avuto la malaria. Stava malissimo e quando l’abbiamo portata all’ospedale il dottore ha detto che aveva l’anemia, e poi il giorno dopo è morta… mi vedevo già morta. In somalo kili vuol dire reni, ma kili in somalo identifica l’area cutanea addominale antero-laterale, mentre in italiano per reni si intende, nel linguaggio quotidiano, l’area dorsale latero- rachidea. Un italiano quando dice che ha mal di reni vuol dire che ha una lombalgia. In somalo può voler significare un dolore della regione del colon ascendente o discendente. In Italia la parola cuore ha un significato anatomico, letterale, che si riferisce al muscolo cardiaco, e significati simbolici che attengono all’area dell’emotività. Tutto un universo simbolico che forse sparisce del tutto quando si comunica con pazienti di un’altra cultura. E lo stesso può avvenire in modo reciproco: un paziente ci parlerà, ad esempio, di stomaco, aspettandosi che noi comprendiamo significati simbolici che ci sono del tutto sconosciuti. Per dare un’idea di come, anche tra culture sorelle, sia facile incorrere in fraintendimenti, si pensi al fatto che, ad esempio, avoir mal au coeur, in francese, non si limita a significare aver mal di cuore, ma nel linguaggio colloquiale indica nausea e disturbi di stomaco…. Soha viene accompagnata dal marito all’ambulatorio per la sterilità di coppia. Non parla e non capisce l’italiano perché è da poco arrivata dall’Egitto. Il marito fa tutto per lei: spiega la loro situazione, risponde alle domande della dottoressa e si dichiara disponibile a qualsiasi cosa per avere un figlio. Iniziano l’iter per l’inseminazione ma dopo due tentativi non arrivano i risultati previsti. Le operatrici del centro decidono di parlare direttamente con la donna senza passare attraverso la traduzione del marito. Si rivolgono ad una mediatrice culturale la quale scopre che Soha non sapeva niente di come stavano realmente le cose. Il mancato concepimento era dovuto ad un problema del marito che lo aveva nascosto a lei e ai parenti. I quali, da una parte e dall’altra davano segni di irritabilità per la presunta incapacità della donna di avere dei figli, mentre Soha cade in una profonda depressione. Saputa la verità la coppia entra in una crisi profonda finché la donna non decide di tentare l’ultima carta per salvare il suo matrimonio: un pellegrinaggio alla Mecca per ritrovare insieme la pace. Dopo cinque mesi la coppia aspetta un bambino. Quattro esempi (tratti dai quaderni Percorsi di donne editi da Percorsi editoriali) di culture diverse in dialogo che per arrivare a capirsi necessitano di un surplus di disponibilità alla comprensione reciproca. Perché, evidentemente, modelli culturali diversi determinano un approccio alla vita diverso. E le stesse parole, da una lingua all’altra, possono assumere significati tanto distanti quanto contrari. Li abbiamo citati perché esperienze quotidiane di questo genere ben fanno capire, più di tante argomentazioni, l’importanza di quella che va definendosi come una vera e propria figura professionale, quella del mediatore culturale. Come dice il termine stesso, una persona che media fra due culture diverse per favorirne la comprensione. Nel caso specifico, un immigrato che conoscendo bene la cultura del proprio paese e quella del paese straniero in cui vive, aiuta i suoi connazionali ad integrarsi nel territorio nella maniera più semplice possibile. Perché tante volte bastano poche informazioni, quelle essenziali, per rendere la vita meno amara a chi non sa come muoversi in una nazione di cui non conosce le regole, le abitudini, le consuetudini. Il mediatore culturale, dunque, come si capisce, non è il semplice traduttore, né l’esperto in tutti i campi. C’è chi lo fa a livello sanitario, chi indirizza il suo operato alle scuole, chi alle questure… A Roma, ad esempio, proprio in questo mese ha preso il via un corso per mediatori linguisticoculturali specializzati in ambito socio sanitario. A promuoverlo l’Istituto di Medicina preventiva delle migrazioni al San Gallicano diretto dal dott. Aldo Morrone, un professionista di alto spessore umano e professionale, con un’esperienza ultraventennale nella prevenzione, nel trattamento e nella ricerca clinico-epidemiologica delle malattie che colpiscono le persone a maggior rischio di esclusione sociale. Già da tempo presso il centro sono impegnati trenta mediatori culturali che ogni giorno svolgono per i cittadini stranieri attività di accoglienza, orientamento e informazione sui servizi e sulle normative vigenti. Simpatica l’iniziativa di Napoli, dove la locale compagnia dei trasporti ha avviato di recente un progetto per favorire la comunicazione fra i propri viaggiatori. Contact, così si chiama il piano, prevede l’impiego di alcuni mediatori culturali, appunto, che viaggiando sugli autobus che quotidianamente trasportano immigrati e gente del posto, parlano con tutti i passeggeri. Agli italiani raccontano delle loro terre lontane, agli altri danno informazioni utili. E così il viaggio durante il quale prima si era sconosciuti gli uni agli altri e a volte anche infastiditi, si trasforma in una piacevole occasione di incontro. Un’iniziativa spontanea e dai connotati popolari che nulla tolgono all’importanza dell’esperimento in sé. Ma la mediazione interculturale rientra in uno dei tanti aspetti della politica per l’integrazione regolata da una legge, la Turco-Napolitano del 1998, che, fra il resto, introduce e riconosce per la prima volta la figura di questo operatore specializzato. È così che sono nati dei veri e propri corsi di Istruzione e formazione tecnica superiore (Ifts) e anche dei master universitari. I quali, certo, non hanno risolto il problema dell’integrazione anche perché non è detto che una volta ultimati gli studi le persone che li hanno frequentati trovino uno sbocco lavorativo presso quegli enti che dovrebbero usufruire delle loro prestazioni. Pulido Altinay del Venezuela, Ahmad Ejaz del Pakistan, Steve Emejuru della Nigeria, Felicité Mzelé del Camerun, Carlo Palanti del Brasile, Karolina Peric della Croazia, Gloria Angarita e Andres Barreto latinoamericani… Sono alcuni fra quelli che si sono specializzati nel campo della mediazione interculturale. Con percorsi personali e professionali diversi, non nascondono di essersi scontrati talora con atteggiamenti di razzismo, pregiudizi, eurocentrismo, così come di essersi meravigliati loro stessi della capacità di accoglienza e tolleranza di altri. In quanto al riconoscimento effettivo della loro professione, dicono, la strada da fare è ancora molta. Come per tutte le novità in fondo. Senz’altro però tutto ciò, anche se può essere migliorato, contribuisce comunque a stimolare quella riflessione culturale che dell’integrazione è un presupposto non indifferente. Il dialogo interculturale – afferma Chiara Mellina, curatrice insieme ad altri di un volume edito da Sinnos su Mediatori interculturali. Un’esperienza formativa -, per essere proficuo ha bisogno di uno scambio reciproco di stimoli e di conoscenze che sia il più possibile sfrondato dai pregiudizi. È necessario evitare che tutto ciò che rientra nella sfera delle proprie categorie di giudizio venga considerato normale, mentre tutto ciò che non rientra nei propri schemi mentali venga rigettato come negativo, fuori dalla norma che si è data la collettività di appartenenza. Il termine extracomunitario ad esempio ha assunto ormai, nell’immaginario collettivo, un valore negativo, è sinonimo di povero o di cittadino dei paesi del Terzo mondo, quasi si fosse dimenticato che tra gli extracomunitari vanno inclusi anche gli americani, gli svizzeri, i giapponesi, per citare alcuni esempi. Sintomatico un episodio riferito nel libro citato riguardante un giovane medico zairiano che in una città italiana si era trovato a sostituire in ambulatorio un suo collega. Un paziente, venuto a farsi visitare, vedendolo gli ha chiesto: Non c’è nessuno?. Sarà che dobbiamo andare tutti, chi più chi meno, a scuola di mediazione interculturale?

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