Come si è arrivati al Decreto sicurezza bis

Antonio Russo, segretario della presidenza nazionale delle Acli con delega all’immigrazione motiva la posizione dell'Associazione sulla normativa contestata da larga parte del mondo associativo

L’assillo della sicurezza e della demarcazione dei confini, da quello degli Stati a quelli perimetrali di casa nostra, sembra essere una delle psicosi del secolo dalla quale non riusciamo a liberarci.

È questo nuovo tormento epocale il padre e l’alleato migliore di chi chiede maggiore sicurezza e di chi maneggia con padronanza l’argomento per capitalizzare consensi. A ragione o a torto, l’unica risposta che i governi europei e quello italiano sembrano trovare a fronte di persone che emigrano da Paesi distrutti dalle guerre e dalle tirannie, è il respingimento senza appello, meglio ancora se fatto nei Paesi di partenza.

E la politica che dovrebbe emancipare i cittadini dalle paure indotte cosa fa? In alcuni casi le ignora e in altri le usa. Questa breve premessa per introdurre il tema che toglie il sonno ad una parte importante della maggioranza di governo: quello dell’immigrazione.

Non che i governi precedenti non avessero vissuto con lo stesso assillo e non avessero provato nel tempo a definire una qualche linea di politica strutturale di gestione dei flussi migratori sposando, anch’essi, se non in casi sporadici, strategie di politiche straordinarie ed  emergenziali.

Perché al lettore non sfugga il lungo cammino di una regolamentazione prevalentemente di stampo securitario e recriminatorio che ha segnato negli ultimi 30 anni circa il tortuoso quadro normativo, è utile ricordare alcune delle leggi fondamentali che si sono susseguite nel tempo.

Dalla legge Martelli alla Turco-Napolitano passando per la legge Bossi-Fini sino al Decreto Maroni (già decreto sicurezza) che ha impoverito il nostro ordinamento garantista introducendo il reato di clandestinità, fino a giungere a provvedimenti più vicini a noi come il Migration compact attraverso il quale il governo Renzi ha accompagnato l’Unione europea ad un processo di “esternalizzazione” delle frontiere per garantire, anche in questo caso, maggiore sicurezza ai Paesi di accoglienza.

Il resto è storia recente , per quanto ci riguarda, scritta soprattutto dai ministri degli interni Italiani. Nel periodo del suo mandato, il ministro Minniti reintroduce la centralità dei CIE (centri di identificazione ed espulsione) e si fa  ambasciatore (soprattutto in Libia) di una migliore definizione dello spostamento oltre Europa delle frontiere.

Salvini, ministro e segretario di uno dei due partiti di maggioranza, caratterizza la sua linea politica, ingaggiando una battaglia contro gli immigrati e l’intero sistema di solidarietà e di accoglienza che prova a difendere gli esseri umani colpevoli il più delle volte di provare a raggiungere l’Europa per salvarsi la vita o per averne una dignitosa.

Se volessimo cogliere immediatamente le conseguenze del piglio securitario che negli anni si è andato inasprendo, tre dati risalterebbero agli occhi: l’aumento dei morti nel Mediterraneo, la diminuzione degli arrivi e dei richiedenti asilo; la vergogna, con responsabilità diffuse e specifiche in Europa, dei lager libici dove il diritto e qualunque riconoscimento della dignità umana sono stati annullati.

Questo è il clima generale entro cui il governo in carica ha emanato il primo decreto sicurezza e si appresta, dal suo punto di vista a migliorarlo, il 22 luglio prossimo con un inasprimento delle pene e delle limitazioni per le Organizzazioni umanitarie.

Molte le critiche che il tavolo nazionale Asilo e le Acli hanno rivolto sia al primo decreto e, per quel che si sa dal dibattito politico in corso, al decreto bis in discussione la prossima settimana. La prima rispetto al metodo adottato.

L’aver scelto per un argomento che richiederebbe una discussione franca e costruttiva con tutte le forze politiche presenti in Parlamento, la decretazione d’urgenza. Ci chiediamo dove la maggioranza ha ravveduto il carattere di straordinarietà dell’iter della legge in relazione al fatto che i numeri esigui di immigrati non regolari in Italia si presterebbero ad una gestione e ad un dibattito in tutti i sensi ordinario (e possibilmente ordinato) della situazione.

Se da un lato si conferma l’approccio securitario, dall’altro lo si sconfessa attraverso l’abrogazione del permesso di soggiorno umanitario che aveva garantito una  identità giuridica a quei cittadini di origine straniera che nel nostro Paese erano già inseriti in percorsi di integrazione.

Non meno grave lo smantellamento del sistema di accoglienza SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) apprezzato in tutt’Europa che, pur faticosamente, ha dimostrato di accompagnare i cittadini immigrati in un processo di reale integrazione, a favore del SIPROIMI (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati) da cui, fra l’altro sono esclusi i richiedenti asilo, che resteranno in accoglienza fino alla scadenza del progetto in corso già finanziato e,  dopo l’entrata in vigore del decreto, troveranno ospitalità solo nei Cara.

Un sistema di regole per l’accoglienza aperto in questo modo esclusivamente ai titolari di protezione internazionale. Una situazione aggravata dal fatto che il decreto sicurezza e immigrazione metta nero su bianco una prassi che da anni si è imposta in Italia sia attraverso leggi nazionali, sia attraverso il modus operandi degli uffici amministrativi: l’esclusione da ogni tipo di servizio attraverso la limitazione dell’iscrizione anagrafica che, giova ricordare, è necessaria per il rilascio del certificato di residenza e della tessera d’identità. È noto che questi due documenti danno accesso alla maggior parte dei servizi pubblici: servizi sociali, servizio sanitario nazionale, iscrizione a un centro per l’impiego, sottoscrizione di un contratto di lavoro, affittare una casa, aprire un conto bancario

Antonio Russo, segretario di Presidenza nazionale Acli con delega all’immigrazione

Si veda anche articolo di Flavio Cerino

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