Sì alla riforma per dare maggiore stabilità al Paese

Eccessivi allarmismi e l’enfasi sul potere delle regole ignorano la realtà della prassi politica e dei partiti. Oltre ogni mitizzazione occorre ricordare che tutte le Costituzioni nascono da un voto di maggioranza. E l’Italicum? La legge elettorale è migliorabile facilmente con piccole modifiche. Intervista al professor Paolo Pombeni
Paolo Pombeni

Passate le elezioni amministrative, assume sempre più importanza il dibattito sulla riforma costituzionale, oggetto del referendum di ottobre. Si confrontano letture e posizioni contrapposte tra loro. I toni possono diventare accesi perché la materia è decisiva, ma non si possono scambiare la mitezza e la ragionevolezza nel porre le proprie ragioni con una dimostrazione di indifferenza e relativismo. Tutt’altro. Proprio perché sono in gioco le ragioni della convivenza democratica, bisogna prestare attenzione e tempo all’ascolto reciproco. Non può bastare uno slogan o una battuta. È quello che cerca di fare cittanuova.it con interventi e interviste che esprimono posizioni discordi nella speranza di stimolare un vero ed esigente dibattito.

 

A proposito della riforma costituzionale, ci sono rese di posizione molto decise e meditate di associazioni espressioni del cattolicesimo politico. Ad esempio “Città per l’uomo” osserva che «una riforma così corposa, votata solo dalla maggioranza governativa, rischia di pregiudicare il senso della Costituzione come insieme di regole condivise, contravvenendo alle quali, potrebbe ingenerarsi una pericolosa spirale di “ritorsioni”, con grave nocumento per la stessa stabilità costituzionale». 

 

Anche il professor Ugo De Siervo in una nota trasmissione televisiva, facendo riferimento al voto inferiore ai 2/3 delle Camere, ha detto: «Se noi riduciamo la Costituzione a una cosa che viene decisa dalla maggioranza politica e poi si va al popolo, noi distruggiamo il concetto di Costituzione. I costituenti più saggi all’epoca della Costituente parlavano di casa comune, la Costituzione deve essere la casa comune in cui tutti si riconoscono. Se io forzo troppo la modifica della Costituzione riducendo (il consenso) a chi è momentaneamente maggioranza, per qualche piccolo accordo, per qualche piccola conquista della maggioranza, e poi (faccio) una bella campagna demagogica, distruggiamo la Costituzione».

 

Sulle modifiche costituzionali abbiamo chiesto il parere di Paolo Pombeni, già professore di Storia dei Sistemi politici all’Università di Bologna, direttore della rivista online mentepolitica.it e attualmente direttore dell’Istituto Storico Italo Germanico della Fondazione Bruno Kessler di Trento. Membro della direzione della rivista “Ricerche di Storia Politica”, che ha fondato, e dell’editorial board del “Journal of Political Ideologies”. Città Nuova ha recentemente pubblicato un testo di Pombeni, in dialogo con Michele Marchi, su “La politica dei cattolici dal Risorgimento ad oggi”. 

 

Professor Pombeni, quale è il suo parere rispetto a giudizi così severi e ponderati sulla riforma Boschi?

«Mi spiace non poter essere d’accordo con quanto viene sostenuto da più parti e anche dalle autorevoli personalità che vengono citate. Innanzitutto è storicamente inesatto che le costituzioni non possano essere votate a maggioranza, soprattutto quando poi vengono sottoposte a referendum popolare. La costituzione francese della Quinta repubblica, per citare un caso recente, è stata promossa dal governo De Gaulle e validata da un referendum. Bisogna poi intendersi su cosa voglia dire questa leggenda di una Costituzione votata in armonia da tutti. Nella Costituente italiana non avvenne affatto così, come ho dimostrato nel mio recente volume “La questione costituzionale in Italia” (Il Mulino): soprattutto la seconda parte (che è quella che viene oggi cambiata) passò con voti a maggioranza e con contrasti molto forti. La differenza di allora con oggi, è che nel 1947, alla fine la minoranza accettò di essere stata battuta e votò l’approvazione complessiva del testo per senso di responsabilità nazionale. Oggi la minoranza, mi si lasci dire faziosa, non accetta di essere stata sconfitta e cerca la rivincita nel Paese non per amore della Costituzione, ma per scopi di battaglia politica. A mio modesto avviso mettere a rischio la stabilità di convivenza di questo Paese in un contesto interno e internazionale difficilissimo quale è quello attuale è un fatto sconcertante».

 

Nelle prese di posizione citate si intravede una certa sensibilità presente nel cattolicesimo democratico che è al centro del libro intervista pubblicato da Città Nuova…

«Non vedo in questa battaglia alcun apporto specifico del “cattolicesimo democratico”: non stiamo discutendo di grandi problemi etici, ma di tecniche di gestione delle istituzioni politiche. Quelle proposte sono discutibili come lo sono sempre le tecniche e si può legittimamente sostenere che ve ne sono di migliori. Farne una battaglia tra angeli e demoni non ha alcuna ragionevolezza e sarebbe corretto evitare di introdurre nelle comunità di fede spaccature che con la fede non hanno alcun rapporto. Su quel terreno in passato si sono già fatti abbastanza danni. Meglio non ripeterli».

 

Entrando nel merito del sistema elettorale, l’associazione “Città dell’uomo”, fondata da Giuseppe Lazzati, mette in guardia dal pericolo di poter avere un partito, votato in realtà da una minoranza di elettori, che con «una forte maggioranza alla Camera dei deputati, “governi” la stessa elezione degli organi di garanzia costituzionale (in primis, quella del Capo dello Stato), chiamati a tutelare soprattutto le minoranze». Non esiste anche a suo giudizio in questo caso un vulnus alla democrazia?

«Questo è un problema serio, che si potrebbe, a mio giudizio, risolvere in maniera semplice introducendo una norma che facesse scattare il premio solo se l’astensionismo non raggiungesse quote pericolose (non andasse oltre il 40%). La cosa non è difficile perché l’Italicum non è una legge costituzionale, ma ordinaria, dunque si modifica facilmente. Detto questo, l’allarmismo mi pare eccessivo perché è basato su una prospettiva del tutto astratta, cioè che la lista vincente sia tale da produrre un esercito di disciplinati soldatini che votano come viene loro imposto. In realtà, come vediamo anche in tutti i sistemi bipartitici (ma anche da noi, basta guardare a quel che succede) le maggioranze non sono mai compatte, ma sono a loro volta divise in tendenze ideali, quando non in fazioni, correnti, gruppi di interesse. Ogni occasione di competizione in democrazia accende gli scontri interni: basta sapere un po’ di storia per capirlo (altrimenti non cambierebbe mai nulla). Quel che vorrei sottolineare è che se invece si pensa che esista la capacità di un leader o di un gruppo dirigente maggioritario nel sistema di imporre la propria linea non c’è salvezza nelle norme. Molte dittature nell’Ottocento e nel Novecento hanno preso il potere senza problemi in sistemi che in teoria non avrebbero dovuto permetterglielo. Nell’antichità si ricordava che a Sparta era vietato costruire delle mura perché le mura della città dovevano essere i petti dei suoi cittadini-difensori. Se vengono meno quelli, non ci sono mura che tengano. Sarebbe bene ricordarlo anche per le costituzioni».

 

(Nel pdf allegato, l'intervista integrale)

 

Su questo argomento leggi anche: Votare no al referendum per difendere la Costituzione

 

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