Shangri-La, paradiso nascosto

L’affascinante utopia creata dallo scrittore britannico James Hilton corrisponde ad una tensione costante dell’animo umano: avere un luogo di pace e bellezza da raggiungere, interiore prima che geografico
Shangrila, Lower Kachura Lake. Foto: Hasanijaz/ Wikimedia commons https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Shangrila,_Lower_Kachura_Lake.jpg

Un autore di romanzi attinge, per le sue storie, sia all’esperienza personale sia a quella altrui, talvolta ad uno spunto originale scoperto per caso. Proprio questa fortuna capitò allo scrittore britannico James Hilton. Sembra infatti che, consultando nella British Library di Londra i numeri del National Geographic Magazine, venisse attratto dai resoconti dei primi viaggiatori occidentali in Tibet relativi ad un piccolo popolo isolato in una valle remota ai piedi della catena himalayana: un popolo felice, benché costantemente in lotta per la sopravvivenza, un popolo allo stato di natura, resistente alle condizioni di vita proibitive, straordinariamente in salute e longevo.

Ce n’era abbastanza per accendere la sua fantasia e stimolare la sua vena letteraria. Fu così che nel 1933 vide la luce Orizzonte perduto, best seller di enorme successo popolare ora riproposto dall’editore Corbaccio, e di cui si ricordano diverse riduzioni per il cinema: la prima e più famosa nel 1937, diretta da Frank Capra.

Vedi caso, da poco avevo letto un affascinante testo di Ralph BircherGli Hunza, il popolo della salute, edito dalla Libreria Editrice Fiorentina – su una etnia del Gilgit-Baltistan (regione del Pakistan) rimasta priva di contatti con l’Occidente almeno fino ai primi anni Trenta del secolo scorso e con caratteristiche così simili a quelle del popolo di cui parla Hilton da far pensare che si trattasse proprio di loro.

Ritorniamo a Orizzonte perduto, racconto appassionante che non ha perso nulla del suo smalto.

Nel maggio 1931, i residenti europei di Baskul (India) vengono evacuati a Peshawar a causa di una rivoluzione. Nell’aereo offerto dal maharajah di Chandrapore viaggiano: Robert Conway, console britannico; Mallinson, il suo viceconsole; l’americano Barnard e una missionaria britannica, miss Brinklow. L’aereo però subisce un misterioso dirottamento ben oltre la catena occidentale dell’Himalaya. In seguito ad un atterraggio di fortuna, il pilota cinese muore, non prima però di aver segnalato a Conway, quale rifugio, un monastero avvistato mentre precipitava.

A questo punto i quattro sopravvissuti ricevono aiuto da Chang, uno strano monaco sopraggiunto sul luogo del disastro, che parla inglese e li accompagna, attraverso un valico nascosto, fino alla valle della Luna Blu, ad un monastero aggrappato alle pendici di una montagna altissima: il Karakal, che vuol dire appunto “Luna Blu”.

Stupisce questo monastero dotato di comfort moderni come il riscaldamento centralizzato e vasche da bagno provenienti dall’Ohio, di una fornitissima biblioteca, un pianoforte a coda e un clavicembalo. Quanto ai viveri, a provvedere è la fertile valle sottostante, dove in armonia con la natura vive una comunità felice governata dagli stessi monaci, i quali con le armi della cultura, della saggezza e della moderazione sembrano aver carpito il segreto di una vita longeva e di ciò che può salvare il mondo dall’autodistruzione (si profila infatti minaccioso il Secondo conflitto mondiale).

Ospiti (o prigionieri?) a Shangri-La, i quattro europei hanno reazioni diverse. Incline alla vita contemplativa, Conway vi trova il suo paradiso fatto di armonia e bellezza e va assorbendo la filosofia della via aurea della moderazione, fonte di pace. Come lui decidono di restare miss Brinklow, impaziente di convertire gli abitanti, e Barnard – in realtà un ricercato dalla polizia –, costui con l’intento di sfruttare le miniere d’oro della valle. Quanto a Mallinson, s’innamora, ricambiato, di Lo Tsen, una postulante manciù dell’apparente età di diciassette anni (ma a preservarla dal decadimento sono state una sorta di elisir di lunga vita e le pratiche ascetiche).

Intanto Conway riceve l’onore inaudito di venire introdotto dal Grande Lama, un ex gesuita francese ancora vivo dopo due secoli grazie al clima, all’elisir e allo stile di vita ascetico. Entrato in profonda sintonia con lui, il diplomatico viene riconosciuto dallo stesso vegliardo ultracentenario come il suo degno successore atteso da sempre. Tuttavia, poco dopo questa rivelazione il Grande Lama muore e la storia prende una piega diversa. Mallinson decide di fuggire con Lo Tsen, ma ha bisogno di Conway come guida. Per aiutare i due innamorati, quest’ultimo rinuncia al suo disegno di restare per sempre a Shangri-La e parte con loro, non senza provare un infinito rimpianto.

Vince dunque l’amore altruistico, saggezza che supera quella stessa del defunto Grande Lama. L’altra e forse più grande saggezza è l’accettazione, da parte di Conway, del dolore, che non scomparirà mai dall’esistenza umana, ma col quale è possibile convivere in un equilibrio continuamente perduto e ritrovato: «Gli pareva che […] tutte le cose più belle fossero passeggere e periture; che i suoi due mondi non avrebbero mai potuto conciliarsi, e uno di essi sarebbe sempre rimasto sospeso a un filo».

Tragica è la conclusione del romanzo, tanto più che chi abbandona quella valle dopo un lungo periodo di permanenza invecchia e muore rapidamente. Mallinson non arriverà mai in Cina, la piccola manciù ridiventa anziana e muore di febbri in una missione. Quanto a Conway, l’idealista conquistato dall’utopia di Sanghri-La, finisce in un ospedale francese in Cina, colpito da amnesia, prima di sparire di nuovo. Ritroverà il suo orizzonte perduto, la valle della Luna Blu?

Tra le opere più note del filone avventuroso del “mondo perduto” (così detto dal romanzo omonimo di Arthur Conan Doyle), Orizzonte perduto è una riflessione sul declino della civiltà occidentale e sul bisogno di fuga in un favoloso Oriente per salvarsi dal non senso e dai conflitti devastanti.

Ma esiste davvero o è esistito un luogo come Shangri-La? Lo si è cercato principalmente in Tibet, nelle province cinesi di Sichuan e Yunnan e in molti altri siti, ma senza prove reali. Ho già accennato al popolo degli Hunza, come probabile ispiratore del romanzo. Nel 2001, la città di Zhongdian, nello Yunnan nord-occidentale, è stata ribattezzata Shangri-La, ma si tratta di un espediente per promuovere il turismo in quel territorio, senza alcuna pretesa di aver localizzato la “vera” utopia.

Circoscrivibile alle leggende popolari e ai sutra religiosi, Shangri-La rimane dunque il simbolo di qualcosa a cui tutti aspiriamo: avere un luogo di pace e bellezza da raggiungere, interiore prima che geografico.

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