Shalomarhabà

“Nuovi scontri a Gerusalemme, quattro morti nel….”. Ancora una volta, lascio ciò che stavo facendo, prendo il telecomando, alzo il volume, sprofondo nella poltrona e mi immergo in quel mondo così difficile da capire, così lontano, ma che ormai fa parte integrante della mia vita. Avverto un nodo alla gola, sento che si sta lacerando qualcosa che appartiene anche a me: un’umanità che ho imparato a conoscere e ad amare. Israele è diventata la mia seconda patria: vedo facce consuete, luoghi familiari, avverto i profumi penetranti di spezie, la vita brulicante e multicolore, le atmosfere d’oriente che ti pervadono quando ti immergi nei suk della città vecchia… È una realtà che sconcerta il turista sprovveduto, alle prime armi, ma che più la conosci più ti affascina. Più tenti di capirla e più ti sfugge. Sono ormai tre anni che, durante il periodo delle ferie estive, svolgo un servizio di volontariato in quei luoghi presso un istituto ad Ain Kerem, a pochi chilometri da Gerusalemme, dove sono ospitati circa settanta bambini affetti da gravi forme di handicap psico-fisico. All’inizio l’ho fatto un po’ per curiosità (una terra che non conoscevo) un po’ per rendermi utile. Ora ne sento il bisogno, a volte provo vera e propria nostalgia. Ricordo ancora, come fosse adesso, la prima volta che ho messo piede in una stanza di quell’istituto, accompagnato da una suora. Alta e magra, con lo sguardo dolce ma deciso, in un francese che sapeva molto di tedesco, mi presentava i bambini come fossero tutti suoi figli. Io ero paralizzato, non credevo ai miei occhi; avrei voluto dirle che ci avevo ripensato: bastava prendere la valigia, non ancora disfatta, e tornare all’aeroporto… Non l’ho fatto: ed ora ne sono felice. Ogni volta che torno mi sembra di aver lasciato quei luoghi il giorno prima, le amicizie si riannodano con spontaneità, il lavoro diventa consueto, gli spazi familiari; e le giornate scorrono rapide ed intense. Si inizia il mattino presto: sveglia alle 6.30, doccia che viene fatta in una piccola vasca, distendendo il bambino sopra un lettino di rete; poi la colazione alle 7.30; alle 8 e mezzo alcuni vanno a scuola, dove vengono aiutati a produrre piccoli lavori (cosa molto improbabile, data la gravità dei casi); altri fanno terapie specifiche. Alle 12 pranzo e verso le 13.30 riposino fino alle tre e mezzo; quindi la merenda e poi la fisioterapia, che prevede stimolazioni sensoriali, motorie; e giochi. Alle 17 cena e alle 18.30 di nuovo tutti a letto. Noi volontari veniamo utilizzati in diversi turni di lavoro assieme al personale fisso: di mattina, di pomeriggio o di notte. Nel mese di luglio, una volta alla settimana, i bambini vengono portati ad Ashdod, una località balneare molto bella, tra Tel Aviv e Gaza; nel mese di agosto, invece, i meno gravi trascorrono una settimana ad Haifa, ognuno affiancato da un volontario. Tutto questo richiede una presenza supplementare di personale. Per i bambini poi si tratta di un momento particolarmente stimolante: la scoperta di un nuovo ambiente, il contatto diretto con la natura. L’istituto, come dicevo, è retto da suore: ce ne sono quattro, dell’ordine di san Vincenzo e di diversi paesi, che si avvalgono di personale locale (arabi e ebrei) e di volontari europei ma anche di altre parti del mondo. Un bel microcosmo dove però ti accorgi, lavorando fianco a fianco, che non sono la nazionalità, la religione, la cultura a dividere: variamo un po’ per carattere, ma sostanzialmente siamo molto simili: è la “conoscenza” che ci avvicina, abbatte le barriere, spiana la strada del dialogo. Anche se, in quanto a comunicazione, è una vera babele: in cui però, alla fine, dopo qualche risata, ci si capisce sempre. Quando mi soffermo a pensare, la mente corre ai miei bimbi, ognuno con la sua individualità. L’ultima volta mi era stata assegnata una nuova camera con sette bambini di diverse provenienze, da conoscere, rispettare, servire. Mi piacerebbe presentarli uno per uno, ma per questioni di spazio parlerò solo di una di loro, Rina, di origine araba, che peraltro ha 18 anni ed è alta 70 centimetri circa. Proprio così, è mignon. Ha mantenuto i lineamenti di una bambina per cui la cosa è ancora più inverosimile. Devo essere grato a Rina, perché, quando sono arrivato nella nuova stanza, credevo di conoscere già tutto. Mi sentivo sicuro e padrone della situazione. Quando si è trattato di dare il primo pasto mi sono avvicinato a lei. Credo di aver letto un certo sorriso ironico nei due colleghi che lavoravano con me. Avevo scelto, senza sapere, il caso più difficile di tutto l’istituto, per ciò che riguarda la nutrizione! In realtà Rina sembra un’offerta speciale, di quelle che trovi nei supermercati, “compri tre e paghi due”, nel senso che tu le metti in bocca uno/due cucchiai di cibo e lei te ne restituisce tre! È una cosa incredibile, ha una lingua a catapulta contro la quale non c’è niente da fare. Dopo un’ora ero affranto ed avvilito. Però, riflettendo, è stata una bella lezione di umiltà: non dovevo concentrarmi sul piatto da vuotare, ma sulla persona che avevo davanti, che si sarebbe lasciata morire di fame se io non trovavo la maniera giusta per capirla. Alla fine, pur non esprimendosi lei con parole, ci intendevamo perfettamente. Quando avevo voglia di “ricaricarmi” andavo a scherzare con lei. Avevo trovato un modo per farla ridere, e vi assicuro ha una risata coinvolgente. Ah, dimenticavo, ha un soprannome: “Rina la chiocciolina”, per il fatto che porta un corsetto rigido (il suo guscio). L’esercizio di fisioterapia consiste nel metterla a pancia in giù sopra una specie skite-board… e lei, coi suoi piccoli arti, corti e ossuti, lentissimamente si sposta, strisciando sul pavimento e lasciando una sottile striscia di bava… All’inizio di questa esperienza, riflettendo sul fatto che molti di questi bimbi sono destinati ad una morte prematura, mi chiedevo: “A che cosa serve il mio intervento, perché tanto accanimento terapeutico?”. Ora non la penso più così: a me, privilegiato, è richiesto solo di fare la mia parte; e se riesco a dare un po’ di sollievo alle loro sofferenze, a destarli dal loro torpore, a condividere un po’ di gioia, va bene così! È vero, molti di loro sembrano piccoli automi rigidi, con lo sguardo perso nel vuoto, senza nessun contatto apparente col mondo, ma ci si affeziona, si impara a capirli, a coglierne anche solo l’accenno di un sorriso, di uno sguardo; e questo basta. Direi che forse è molto più quello che si riceve da queste creature che ciò che si dona. Mi ha colpito quello che mi ha confidato un padre, conosciuto a Gerusalemme. Lui, insegnante universitario di teologia, era venuto in Terra Santa per approfondire gli studi presso i domenicani. Affrontare con eccessiva razionalità il testo biblico aveva però determinato in lui una crisi spirituale. Contemporaneamente, per mantenersi, lavorava nel nostro istituto. Ebbene, la vicinanza con gli “ultimi” l’aveva ricondotto all’essenza profonda della vita cristiana, gli aveva fatto ritrovare la fede! Quanto sto vivendo da tre anni è certo una breve parentesi della mia vita. Ma quale ricchezza interiore mi sta dando! È un’esperienza, fra l’altro, legata ad una terra speciale dove convivono diversità spesso estreme: ambientale, etnica, linguistica, religiosa… Non è facile, lo sappiamo, ma proprio da qui potrebbe partire il messaggio che una convivenza pacifica tra i popoli è possibile. Diversità, infatti, vuol dire anche ricchezza. E questo istituto dove bambini ebrei, arabi e beduini vivono gli uni accanto agli altri, accuditi ed amati tutti allo stesso modo, dimostra che, in fondo, si può vivere assieme nello stesso spazio, nel rispetto delle altre culture, religioni e tradizioni; cercando un punto d’accordo, una convivenza pacifica. E allora un augurio in un’unica parola che fonde i due idiomi, le due lingue ebraica ed araba, in segno di saluto e di speranza… “Shalomarhabà”!

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