Serve uccidere Saddam?

Dopo tre ore l’udienza è stata aggiornata a lunedì 28 novembre. Ma già in apertura del processo, il 18 ottobre scorso, l’ex dittatore Saddam Hussein ha fatto capire la sua linea difensiva. Io sono il presidente della repubblica dell’Iraq. Tu mi conosci bene, aveva replicato con tono risoluto al giudice del tribunale speciale che gli aveva chiesto di declinare le proprie generalità. La lunga detenzione non ha fiaccato la grinta del prigioniero d’eccezione: Io non risponderò ad alcuna domanda di questo tribunale, di cui non riconosco la legittimità. Insieme a Saddam sono imputati altri sette esponenti del vecchio regime. Tutti sono incriminati per la strage di Dujail, avvenuta nel 1982, quando furono impiccati 143 sciiti… Sulla testa dell’uomo che per 30 anni ha dominato l’Iraq pendono quattro capi d’imputazione, come riportiamo a parte. Per ognuno dei crimini di cui è accusato, l’attuale ordinamento iracheno – quello voluto da Saddam Hussein – prevede la condanna a morte. Se le prove dell’accusa non saranno confutate, il futuro dell’ex Raìs è già delineato. La logica che sembra stare dietro il processo a Saddam mira ad una rapida resa dei conti nei riguardi del massimo responsabile e dei suoi gerarchi. Per il Dipartimento di stato americano: Il processo chiude un capitolo cupo della storia dell’Iraq. Nella grave crisi che perdura a Baghdad, un’eventuale condanna capitale nei confronti di Saddam e dei complici potrebbe suonare come un monito per i tanti sunniti indecisi se sbarazzarsi delle armi o continuare il bagno di sangue. Appare, perciò, scontato l’esito del processo: condanna alla pena capitale. È la convinzione anche dell’autorevole quotidiano inglese Times, che si è affidato ad una vignetta, in cui Saddam è ritratto sul banco degli imputati, una corda al collo e una persona pronta ad aprire la botola sotto i suoi piedi. Sentenza già scritta è l’ironico commento. Tutto bene, allora? Sembrerebbe di sì. Almeno stando a quanto hanno dato a vedere il mondo dell’informazione e i circoli influenti. Saddam merita la morte per quanto ha fatto e per quello che rappresenta. Ogni esecuzione è sempre una sconfitta della democrazia e dell’umanità, perché abbassa lo stato e la società a livello di chi ha commesso il crimine, commenta Mario Marazziti, della Comunità di Sant’Egidio. La condanna capitale a Saddam e ai suoi uomini – sostiene – sarebbe un’ulteriore vittoria della cultura della morte. Si tratta invece di introdurre in quel paese una cultura di democrazia senza vendetta. Ne conviene anche Sergio D’Elia, segretario di Nessuno tocchi Caino, associazione sorta del 1993 per l’abolizione della pena capitale. Condannare a morte Saddam sarebbe per il nuovo Iraq il modo peggiore di presentarsi al mondo. Certo, andava fermato, ma giustiziarlo sarebbe un errore politico, perché quello che è un criminale diverrebbe un mito per l’opposizione sunnita armata. L’uccisione, secondo gli esperti, soddisferebbe gran parte dell’opinione pubblica internazionale e irachena, ma creerebbe – avverte Marazziti – un ulteriore elemento di destabilizzazione del paese e rappresenterebbe il via libera all’eliminazione di un’ex classe dirigente, a quel punto interessata a far restare l’Iraq nel caos. Non mancano dubbi sulla scelta di un tribunale interno. Quello di Norimberga – sostiene D’Elia – è stato definito il processo dei vincitori contro i vinti, ma le norme di diritto internazionale furono rispettate. A Baghdad se ne sta svolgendo uno che contrappone le vittime al carnefice: il presidente è un curdo, la giuria è formata da sciiti, gli imputati sono sunniti. Addio imparzialità. La soluzione più opportuna sarebbe stata l’istituzione di un apposito tribunale penale internazionale. Avrebbe assicurato il rispetto di tutti i fondamenti del diritto ed evitato la prospettiva della condanna a morte, non più prevista in quella corte – davvero una conquista di civiltà – nemmeno per i crimini più efferati. Di speciali tribunali internazionali sono in funzione, al momento, quattro: per l’ex Jugoslavia (che tenta di processare Milosevic), per il Rwanda, per la Sierra Leone e per Timor Est. Se ne sarebbe potuto creare un quinto. Invece, all’interno della forza multinazionale presente in Iraq – spiega Vincenzo Buonomo, docente di diritto internazionale a Roma – è stato ribadito il principio che tali processi sono di competenza del paese. Non c’è una sola ragione, secondo noi, per mettere a morte un uomo. Nemmeno il peggiore. Per quanto riguarda Saddam, pesano pure un sacco di controindicazioni: non si chiuderà un’era, si creeranno ulteriori divisioni, salirà il tasso di vendetta. C’è da chiedersi – insinua Buonomo – se il processo a Saddam nell’attuale situazione d’emergenza sia davvero una priorità. L’uccisione a fine ottobre di uno degli avvocati difensori degli imputati segnala il carico di vendetta riversato sul processo. L’obiettivo strategico per l’Iraq – ricorsa Buonomo – è la riconciliazione, e il processo non aiuta. Non ha insegnato nulla nemmeno la positiva vicenda del Sud Africa. Lì si arrivò alla riconciliazione nazionale decidendo di non processare chi si era macchiato di crimini di apartheid. A cosa assisteremo, allora? A continui rinvii – prevede Buonomo -, sulla scia del processo a Milosevic, che si trascina ormai da tre anni. Gli eventuali, continui aggiornamenti delle sedute sarebbero un segnale molto esplicito: nessuna intenzione di processare Saddam. Questa strategia – considera Buonomo – assicurerebbe a chi pretende le garanzie processuali la convinzione che esse sussistono, e darebbe all’opinione pubblica irachena l’idea che si vuol capire come evolverà il paese senza creare ulteriori lacerazioni. SADDAM HUSSEIN È ACCUSATO CRIMINI DI GUERRA Nei conflitti con Iran e Kuwait ha violato le norme internazionali in materia bellica, dall’uso dei gas al coinvolgimento delle popolazioni civili, fino all’eliminazione fisica dei prigionieri di guerra. CRIMINI CONTRO L’UMANITÀ Soppressione delle libertà fondamentali ed eliminazione degli oppositori al suo regime. GENOCIDIO Sterminio dei curdi. CRIMINE D’AGGRESSIONE Contro il Kuwait. PENA DI MORTE crescono i paesi abolizionisti Continua l’evoluzione positiva verso l’abolizione della pena di morte. I paesi che hanno deciso di abolirla per legge o in pratica sono oggi 139. Dall’inizio del 2004, il Tagikistan e la Liberia l’hanno abolita totalmente, Tanzania e Saint Vincent- Grenadine sono diventati abolizionisti di fatto (nessuna esecuzione negli ultimi 10 anni). Da segnalare il passo avanti del Senegal, paese musulmano, diventato totalmente abolizionista. I paesi mantenitori sono scesi a 57 (64 nel 2002, 61 nel 2003), e di questi solo 25 hanno effettuato esecuzioni. È diminuito anche il numero delle esecuzioni nel mondo: almeno 5.523 nel 2004, a fronte di 5.607 nel 2003. Al 30 settembre scorso, sette paesi avevano ripreso le esecuzioni: Afghanista, India, Indonesia, Libano, Autorità palestinese, Libia e Iraq. L’Asia si conferma il continente dove si pratica il 98,8 per cento delle esecuzioni nel mondo. In Cina, almeno 5.000 accertate (ma il numero reale sarebbe quasi il doppio). Seguono Iran, Vietnam, Corea del Nord. In Africa, solo nove esecuzioni in tre paesi, Egitto, Sudan e Somalia. In Europa, un unico paese, la Bielorussia, con 5 esecuzioni nel 2004. Nelle Americhe, restano gli Stati Uniti, con 59 giustiziati nell’ultimo anno, ma erano 65 nel 2003 e 71 nel 2002. Di portata storica alcune recenti sentenze della Corte suprema degli Usa: cancellata la pena di morte per i minorenni (al momento del reato), fine delle esecuzioni per i minorati mentali, bocciate le condanne decise da un giudice unico invece che da una giuria. Sul sito www.nessunotocchicaino.it, un quadro completo del Rapporto 2005, presentato da Nessuno tocchi Caino.

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