Serafino il taciturno

Il “minimo” del nostro gruppo, il collega dall’atteggiamento rigido e ostile. Due storie che cambiano.
Illustrazione di Valerio Spinelli

Da tempo mi ero accorto che uno del gruppo sulla spiaggia, un ragazzo, si muoveva in modo schivo e silenzioso. Serafino, appartenente a una bella e numerosa famiglia borghese, sembrava evitare gli altri, con una piega di tristezza e disagio. Disteso sulla sdraio, taciturno, osservava il mare, il passaggio delle vele e il mutarsi del cielo. Seguiva in silenzio con apparente distacco le varie conversazioni. Ma in realtà nulla sfuggiva al suo sguardo indagatore.
Per far parte della combriccola, dove io mi trovavo perfettamente a mio agio, dovevi essere brillante, sempre pronto alla battuta e aperto alla conversazione. Tutte caratteristiche assenti in lui. Indubbiamente Serafino presentava qualche problema.
Accortomi da tempo della situazione, mi era venuto in mente: «Ciò che avete fatto al minimo, l’avete fatto a me». E il ragazzo, nel gruppo vivace e ciarliero, appariva proprio il minimo, il trascurato, quello che contava di meno.
Prendendo l’iniziativa, ho iniziato a intrattenermi con lui mentre ci crogiolavamo al sole. È diventato per me la persona privilegiata, la prima che andavo a salutare. E anche lui, notavo, stava bene con me malgrado la grande differenza di età.
Cominciavamo a uscire in canoa, ciascuno con la sua. Atletico e abile, Serafino si muoveva in modo perfetto. Passavamo intere mattinate in mare. Se il tempo si protraeva, i genitori si rincuoravano dicendo: «Tanto è con Marco». Serafino ha cominciato a sciogliersi, a confidarsi. Ed io ad ascoltarlo, dimenticando tutto il resto. Sorprendeva come coglieva le minime sfumature, inquadrava perfettamente le persone.
Appena in spiaggia, me lo ritrovavo accanto immancabilmente. Allora, da pari a pari, combinavamo il da farsi. Spesso andavamo a raccogliere frutti di mare sulla grande scogliera sommersa, non molto distante dal litorale. Oppure, nelle giornate di sosta forzata a causa dello scirocco che spirava impetuoso, passavamo il tempo a consultarci su come rendere più efficienti e veloci le nostre canoe. L’argomento lo appassionava. Sorrideva.
Oggi Serafino, ormai diventato adulto, neppure immagina quanto sia stato sempre lui a “dare” e io a ricevere.

Marco Serafini

 
Per il bene dell’altro
 
In vista del mio prossimo trasferimento in un’altra città per un contratto a tempo indeterminato nell’azienda ospedaliero-universitaria, sto passando ai colleghi le “consegne” per assicurare continuità ad alcune attività di mia competenza che sono un servizio diretto alle persone e contribuiscono al buon funzionamento dell’ospedale.
Nel corso però di una riunione con alcuni dirigenti che ho coordinato quest’anno per il controllo delle infezioni, è venuto fuori che avevo svolto personalmente un’attività non di mia competenza diretta, ma che nessuno sapeva o voleva fare. A questo punto la persona che avrebbe dovuto occuparsene già da tempo ha cominciato a sciorinare un bel po’ di problematiche che, obiettivamente, suonavano come scuse. Non solo: quando le ho fatto notare che fino a quel momento mi ero sobbarcato io quel compito in aggiunta ai miei, mi son sentito ribattere che «non tutti possono avere la stessa voglia di lavorare senza guardare all’orologio».
Dato il periodo che viviamo come azienda e
come provincia, e il prezzo che pagano i cittadini più deboli, trovavo difficile giustificare un atteggiamento del genere, come se si trattasse di escogitare il modo legale di impegnarsi meno che si può.
Avevo proprio voglia di dirgliene quattro, o di sistemare le cose in maniera burocratica e formale, sfruttando l’autorità della direzione, in modo da costringere questa persona ai propri doveri. Ma per fortuna la coscienza mi ha suggerito un atteggiamento diverso: cercare di ascoltare le rimostranze dell’altro.
Così facendo, m’è parso di comprendere che dietro quell’atteggiamento rigido e ostile c’erano vecchie storie di dissapori con altre persone che in passato si erano comportate male verso di lui. La “chiusura”, più che da un vero atteggiamento negativo, sembrava nascere dal timore di essere sfruttato e preso in giro.
Ascoltando fino in fondo, ho capito come risolvere il problema delle attività in questione, salvaguardando nel frattempo le sue
esigenze di orario e di tutela.
Quando gli ho fatto la proposta al telefono, il collega ha accettato senza discutere con mia grande sorpresa. Continuando a parlare in un clima più sereno e fiducioso, mi ha accennato al suo desiderio di imparare cose nuove e crescere professionalmente. Anche gli altri, che a quel punto dovevo per forza coinvolgere, sono rimasti soddisfatti dell’idea, che sistemava anche alcuni vecchi problemi aperti.
Riflettendo su questo episodio, ho capito meglio cosa vuol dire che «la
Parola fa vivere». Avevo cercato di ascoltare la voce di Dio dentro di me, senza giudicare ma mettendomi nei panni dell’altro. Questo aveva permesso non solo a me di trovare la soluzione giusta, ma anche al collega di aprirsi ad una nuova opportunità professionale. E in questa “crescita” umana ho visto quella vita che il Vangelo garantisce. Anch’io mi sono trovato cresciuto: ho capito che l’esperienza del dirigente richiede prima di tutto di essere responsabile di chi lavora con te, di far emergere i suoi lati più validi, metterli in gioco, motivare e, quando serve, cercare di correggere.
Se tutto questo è fatto per il vero bene dell'altro, si ottengono i risultati migliori, anche sul piano professionale e umano. Si riducono gli sprechi e si aumenta l’efficienza, ma ne trae beneficio anche il clima di lavoro.

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