Senza diritto di cittadinanza. Oppure sì?

Presentato a Cuneo il libro di Silvano Gianti edito da Città Nuova. Un'occasione per riflettere sulle emergenze del nostro tempo

Nei giorni scorsi, la sala del settimanale diocesano di Cuneo, La Guida, era piena per la presentazione del libro di Silvano Gianti, intitolato Senza diritto di cittadinanza. Una presenza che ha espresso l’affetto che la città di Cuneo nutre per un suo concittadino che attualmente vive a Genova dove lavora per “Città fraterna”, un’onlus che sostiene i disoccupati del capoluogo ligure.

Senza diritto di cittadinanza_Silvano Gianti_CN_2016
Senza diritto di cittadinanza di Silvano Gianti

Il libro di Gianti, edito da Città Nuova, tra autobiografia e cronaca, racconta le storie di tanti che vivono ai bordi in un “anonimato assordante”. Gente incontrata nelle piccole e  grandi città del nord del Paese. In dieci capitoli, l’autore racconta storie di vite vissute nella desolazione, sofferenza, talvolta nella gioia del riscatto e dell’integrazione.

Con questo libro, Gianti rivela un’attenzione particolare verso i poveri, gli esclusi che fin da ragazzo ha sentito viva e che ora descrive senza retorica ed eccessi sentimentali. Racconta la sua esperienza quotidiana con una prosa distillata, e che rivela autenticità.

Il libro s’inserisce in quel cammino che papa Francesco sta chiedendo alla Chiesa, e cioè l’uscire per aprire gli occhi, per essere attenti a coloro che vivono nelle periferie della città. Per dirlo con il titolo del libro, essere attenti a coloro che sono senza diritto di cittadinanza.

Titolo che prende spunto dall’omelia pronunciata da papa Francesco il 25 settembre 2015 al Madison Square Garden di New York. Omelia che Silvano riporta in parte in fondo al libro: Vivere in una città è qualcosa di piuttosto complesso: un contesto multiculturale con grandi sfide non facili da risolvere. Le grandi città ci ricordano la ricchezza nascosta nel nostro mondo: la varietà di culture, tradizioni e storie. La varietà di lingue, di vestiti, di cibi. Le grandi città diventano poli che sembrano presentare la pluralità dei modi che noi esseri umani abbiamo trovato di rispondere al senso della vita nelle circostanze in cui ci trovavamo. A loro volta, le grandi città nascondono il volto di tanti che sembrano non avere cittadinanza o essere cittadini di seconda categoria.

Nelle grandi città, nel rumore del traffico, nel “ritmo dei cambiamenti”, rimangono coperte le voci di tanti volti che non hanno “diritto” alla cittadinanza, non hanno diritto a far parte della città – gli stranieri, i loro figli (e non solo) che non ottengono la scolarizzazione, le persone prive di assistenza medica, i senzatetto, gli anziani soli – confinati ai bordi delle nostre strade, nei nostri marciapiedi in un anonimato assordante. Ed entrano a far parte di un paesaggio urbano che lentamente diventa naturale davanti ai nostri occhi e specialmente nel nostro cuore. Sapere che Gesù continua a percorrere le vostre strade, mescolandosi vitalmente al suo popolo, coinvolgendosi e coinvolgendo le persone in un’unica storia di salvezza, ci riempie di speranza, una speranza che ci libera da quella forza che ci spinge ad isolarci, a ignorare la vita degli altri, la vita della nostra città. Una speranza che ci libera da “connessioni” vuote, dalle analisi astratte, o dal bisogno di sensazioni forti. Una speranza che non ha paura di inserirsi agendo come fermento nei posti dove Ci tocca vivere e agire. Una speranza che ci chiama a guardare in mezzo allo “smog” la presenza di Dio che continua a camminare nella nostra città. Perché Dio è nella città”.

L’espressione del Papa (“Perché Dio è nella città”) ricorda una canzone dei Pooh intitolata Uomini soli, che nel ritornello finale diceva: “Dio delle città e dell’immensità/ magari tu ci sei e problemi non ne hai/ ma quaggiù non siamo in cielo e se un uomo/ perde il filo è soltanto un uomo solo”.

La Chiesa è lì per non essere e per non vivere da uomini soli. Ciò che papa Francesco chiede alla Chiesa è già stato vissuto. Pensiamo a Madre Teresa di Calcutta e a tante altre realtà. Però continuamente siamo chiamati a non dimenticare la carità, la verità dell’attenzione a chi vive ai margini.

Nell’Introduzione al libro Silvano scrive che “le periferie esistenziali non sono frutto dell’immaginazione, ma una presenza concreta nella nostra vita quotidiana”. Le periferie esistenziali (luoghi, ma ancora di più vissuti) ci sono, sono una presenza concreta nella nostra vita di tutti i giorni. L’importante è non chiudere gli occhi su quella realtà, non abituarsi. Periferie che Silvano ha incontrato nei malati mentali che vagabondano per le città, negli anziani con pensioni da fame, nei migranti sradicati dalle loro terre, nei giovani che spesso si rifugiano in una vita virtuale.

Ma nello stesso tempo la narrazione di queste periferie diventa anche testimonianza di tutto il bene che in una città, in quartiere, paese, c’è: un’infinità di associazioni e individui che si fanno carico di chi è nella sofferenza.

Come scrive Silvano in conclusione del libro, “quante opere di misericordia, quanta fantasia della carità ho visto dispensata a piene mani un po’ ovunque”.

E cita la canzone di Ivano Fossati, Mio fratello che guardi il mondo per dire che ci sono persone che tracciano strade dentro il cuore degli altri. Se c’è una strada sotto il mare, prima o poi ci troverà. Se non c’è strada dentro il cuore degli altri, prima o poi si traccerà.

Il libro di Gianti invita a cercare la strada dentro il proprio cuore e dentro il cuore degli altri, incoraggia ad andare avanti nell’attenzione a chi vive ai margini. E se quella strada ancora non c’è, prima o poi si traccerà.

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