Senza destino

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Uno incomincia a leggere l’avventura a Buchenwald del quasi quindicenne Gyurka – alias l’autore, grande scrittore ungherese a cui è andata la giusta assegnazione del Nobel, dopo tante ultimamente sbagliate – e gli pare che non succeda nulla. Una pacata prosa costruita dallo sguardo più che dal pensiero (e che sembra stesa di slancio mentre in realtà è costata dieci anni di lavoro proprio per rendersi essenziale, non una parola in più, e pacata) scopre col passo ignaro e attentissimo del ragazzo ebreo che la “fabbrica” è un lager solo dopo ottanta pagine, in cui il crescente orrore non è vissuto, allora come tale, ed è stupendamente ma inconsciamente contrappuntato, all’inizio dai primi baci dell’adolescente; che poi diventa un numero, una casacca e un corpo destinato a morire lentamente lavorando. Non lo sa ancora ovviamente, ma gli viene quasi da pensare che quel luogo, dice, “era stato sempre lì, ad aspettarmi “. È la sua vita, per brutta che sia, la giovinezza, e anche se gli altri compagni di sventura finalmente capiscono e mormorano: “Agghiacciante”, lui accetta, secondo quellecircostanze, di fare i suoi – passi obbligati “con rettitudine”, ma senza nessunissima enfasi ideale o fede religiosa (è un ebreo lontano dalla Tradizione), solo per un amore istintivo e non problematico della vita esposta dalla malvagità alla fame e alle malattie. Tutta la prima parte abbondante del libro è – non vuole essere – un confronto oggettivo tra la minerale geometrica ferocia nazista, con complicità locali (come accadde ovun- que) e l’inerme, evidente superiorità morale e civile degli increduli deportati. Ma Gyurka non ne fa motivo di condanna e neppure di giudizio (qui il libro rivela un’alta originalità rispetto ai pur grandi consimili racconti, poniamo i capolavori di Primo Levi e di Elie Wiesel); valuta solo momento per momento, anche quando la possibilità di morire per stenti è sull’orlo della realtà, e la visione delle cose dondola e fluttua nella mente facendosi remota (nelle grandiose pagine 154-160), prima della inopinata svolta che lo salva, e poi della liberazione materiale. Ma proprio ora viene – la gaffe è necessaria – il “bello”. La vita deve continuare “visto che la situazione generale lo permetteva, è ovvio”, e ora sono i tedeschi a nascondersi mentre gli spettri reduci dai lager si trovano a dover cantare, un’altra volta ignari, “proletariato” e “fronte rosso”. Gyurka si trova sinceramente compatito, ma infastidito dalla Compassione. Non è possibile immaginare l’inferno del lager, gli dicono, “e io, da parte mia, me ne rendevo conto. Tra me e me ho pensato; sarà per questo che preferiscono parlare di inferno, probabilmente”. Il suo tremendo realismo lo porta anche ad arrabbiarsi: “(…) non capivo come potessero non concepire che io, adesso, volevo farne qualcosa di quesuo destino, che dovevo ancorarlo, agganciarlo a qualcosa, che non potevo dirmi semplicermente che era stato un errore, un incidente, una specie di sbandata o magari che non era affatto accaduto.(…) ho spiegato loro che non si può cominciare una vita nuova ma soltanto proseguire quella vecchia.(…) io non potevo mandare giù l’amara idiozia di essere semplicemente e nient’altro che innocente “; con tanto di nostalgia per dove la vita “era più pura, più frugale “; e con il peso di proseguire “la mia vita che non è proseguibile”. Non lo capiscono, tanto meno quando si ripromette di raccontare che “persino là, accanto ai camini, nell’intervallo tra i tormenti c’era qualcosa che assomigliava alla felicità ” (in questo finale l’autore si rivela anche grande parente di Camus). E infatti Kertész non piace neppure al regime comunista ungherese, che lo emargina, vive facendo il traduttore di grandi autori tedeschi, fin quando il crollo del regime gli apre la strada alla fama in Germania e poi altrove, permettendoci di conoscerlo attraverso questo grande racconto.

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