Segni di rinascita

Il papa visita il carcere romano di Rebibbia. Le impressioni del cappellano don Sandro Spriano.

Pathos e logos. Tra queste due corde, l’emozione e la razionalità, si dipana la visita del papa a Rebibbia. È la seconda volta che Benedetto XVI entra in una casa circondariale, dopo la visita al carcere minorile di Casal del Marmo nel 2007. Il solo fatto di varcare la soglia, stringere le mani con calma ai 300 detenuti che lo attendevano nella Capella “Dio padre nostro”, entrare in relazione per rompere l’isolamento dei carcerati, ha un grande significato, difficilmente spiegabile, per chi vive recluso e si sente abbandonato dalla società. Il papa lo ha fatto con il suo stile mite, dolce e paterno.

 

Anche nel carcere romano di Rebibbia si vivono gli stessi problemi delle carceri di tutta Italia: il sovrappopolamento con quasi 1800 detenuti su una disponibilità di 1100 posti, mentre sul territorio nazionale siamo a quota oltre 68 mila a fronte di 45 mila posti branda. Una situazione insostenibile che svilisce la dignità umana, favorisce l’alienazione e la depressione, con il disagio espresso dalle fredde cifre dei suicidi, oltre 60 quest’anno, che si verificano più frequentemente al momento dell’ingresso in carcere e in prossimità dell’uscita. Proprio perché lo shock di entrare in una cella in cui si sta fino a 20 ore al giorno, con i turni per stare in piedi, con il doppio della capienza consentita, anche 6 in celle da tre, ti toglie la speranza. La stessa che svanisce quando si sta per uscire. La società ha marchiato a vita la dignità di un ex detenuto a cui nessuno darà più lavoro né futuro.

 Nel carcere romano di Rebibbia da 22 anni il cappellano è don Sandro Spriano.

 

Impressioni sulla visita del papa, le sue personali e dei detenuti…

«È stata una visita estremamente bella, commovente e importante. Il papa ha messo tutti noi a nostro agio nelle risposte che ha dato ai detenuti e nei momenti di fraternità. La scelta stessa di non celebrare una messa ma di scegliere un momento di dialogo è stato molto gradito. I detenuti hanno avvertito la vicinanza della Chiesa e il papa ha sollecitato il governo per dare condizioni di vita accettabili ai detenuti e il ministro della Giustizia, Paola Severino, gli ha fatto eco. È stato un concerto di rinascita e speranza».

 

Passata l’emozione cosa resta di questa visita, nella quotidianità?

«Resta il quotidiano che è uguale al giorno prima della visita del papa. Abbiamo però riletto con 300 detenuti le risposte del papa con grande attenzione, e a Natale molti hanno pregato per lui. Ora ci aspettiamo che i nostri politici intervengano. Ho conosciuto il ministro, è una persona molto sensibile e favorevole anche ad altre misure oltre quella intrapresa, che avrà effetti molto limitati. Interessa, infatti, circa 3 mila detenuti a cui saranno concessi gli arresti domiciliari; ma tanti detenuti non hanno né domicilio né una casa dove andare, né ci sono strutture che possano accoglierli. Resta, comunque, un segno di apertura e di rinascita».

 

Il sovrappopolamento delle carceri quali malesseri causa?

«Attualmente i carcerati vivono in condizioni in cui è calpestata la dignità umana, perché mancano le risorse economiche e umane per gestire gli istituti di pena. Recentemente, ad esempio, nel carcere di Rebibbia venti detenuti non hanno trovato posto nelle celle e per questo sono sistemati in una sala di socialità con i materassi a terra. Non potevano andare in bagno perché erano rotte le tubature e non ci sono i soldi per riparare i tubi. Scompaiono, così, i diritti fondamentali che non si riescono a soddisfare».

 

Ma qual è il nocciolo della questione?

«Dal mio punto di osservazione, è che il carcere non è più l’estrema ratio, come previsto dalla Costituzione, di una condanna di fronte ad un reato, ma è diventato lo strumento di ricovero per persone che non riusciamo più a integrare nella società: abbiamo malati di mente, immigrati, tossicodipendenti, poveri, senza fissa dimora. Stiamo usando il carcere per eliminare tutti coloro che ci danno fastidio, perché è la cosa più semplice».

 

Quali possibili soluzioni, visto la sua esperienza di 22 anni come cappellano, vuole proporre?

«Ci sono soluzioni a costo zero. Ci vorrebbe una legislazione non vendicativa come la legge Cirielli o sulla tossicodipendenza. Quasi il 50 per cento dei detenuti è in carcere per la custodia cautelare; sono, cioè, imputati e non condannati. Poi, bisogna mettere mano a riforme legislative sostanziali, pensando a pene alternative che in Italia non abbiamo».

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