Segmenti tra cielo e terra

Nessuno ha mai dubitato della fede cristiana di un popolo come quello armeno, che già nel 301, per opera di Gregorio l’Illuminatore, aveva abbracciato la fede nuova che veniva da Gerusalemme e da Roma con quel simbolo infame, quel Dio appeso al legno, scandalo sia per gli ebrei che per i pagani. Gli armeni avevano i loro dèi legati alle forze della natura e ai cicli della vita, e avevano una sensibilità insieme spirituale e concreta. Scelsero quel simbolo, che oggi è presente nei suoi khatchkar, i crocifissi in pietra a bassorilievo, in ogni più remoto angolo d’Armenia. Ma la croce dondola anche al collo di ogni armeno che si rispetti e sui cruscotti delle auto, nei dépliant turistici nel cuore della gente. La croce è il vero simbolo degli armeni, e la storia l’ha dimostrato nelle persecuzioni, nelle guerre, nel genocidio. Tutto ciò è evidente in ogni strada dell’Arme- nia, ma in modo tutto particolare nelle chiese e nei suoi monasteri, a centinaia, che appaiono d’improvviso nei luoghi più impervi dell’altopiano, in valli scoscese, o nel bel mezzo di un pianoro. Nei secoli hanno difeso la cultura e la religione armena dalle civiltà confinanti, creando un monachesimo né latino, né greco, ora quasi scomparso. Con la loro sola presenza, i monasteri (i vank) dicono la fede d’un popolo travagliato. Akhtala Estremo Nord del Paese, sulla strada per Tbilisi. Akhtala una volta andava fiera delle sue fabbriche che producevano materiali chimici derivati dal rame del sottosuolo. Oggi è tutto un cimitero di ferraglia e cemento. Ho letto di un monastero e di una bella chiesa affrescata; ho bisogno di tempo prima di trovarli, seguendo le contraddittorie indicazioni dei pochi abitanti che incrocio. Giungo ad un arco in muratura che tradisce i secoli, sbarrato da un cancello metallico costruito con materiali ferrosi d’ogni tipo, dal tondino per cemento armato a tombini, da grosse chiavi a molle di sospensioni d’auto! Avanzo. M’affascina questo abbandono dei secoli andati sullo sfondo della decrepitezza industriale. La fortezza fu costruita nel X secolo dal ramo Kyurikid della dinastia dei Bagratuni, mentre la chiesa, dedicata alla Vergine Santa, è stata edificata nel XIII secolo. È stata poi arricchita con elementi architettonici e decorativi di tradizione georgiana più che armena (vestiboli a volta sul lato orientale, croci sugli orli delle pareti, alcove contigue ai pilastri…). Entro nella chiesa della Vergine Santa. Una volta abituato alla luce radente che taglia l’oscurità filtrando attraverso feritoie senza protezione alcuna, mi rendo conto che l’integralità delle superfici murali è dipinta. Lo stato degli affreschi – anch’essi del XIII secolo – ve lo lascio immaginare; eppure quel che resta visibile appare splendido, nel coro e nel nartece, sui pilastri. Riconosco una meravigliosa Vergine sul trono che tutti abbraccia e sorregge, oltre a un giudizio universale assai danneggiato. Sono i volti dei santi raffigurati ad illuminare l’insieme, tradendo l’arte di chi ha affrescato la chiesa. Etchmiadzin L’indiscusso centro spirituale di tutto un popolo e di tutta una diaspora è Etchmiadzin. Il suo nome significa luogo dove l’Unigenito discende. Qui Gregorio l’Illuminatore fondò l’attuale cattedrale già nel 303, e ancor prima altri luoghi di culto. Qui vive il katolikhos, cioè il capo della Chiesa armeno- apostolica. Sono numerose le chiese degne di visita a Etchmiadzin, a cominciare dalla cattedrale e dalla chiesa dedicata a san Gayaneh. Ma mi concentro su quel piccolo- grande capolavoro che è la chiesa di san Hripsimeh, istituita come cappella già nel 301: una armoniosa costruzione che, sullo sfondo della silhouette del monte Aragats, svetta come una sfida a quel Cielo che tante volte ha dato l’impressione di abbandonare un popolo così fedele. Nella cripta si ammira il sepolcro delle vergini di san Hripsimeh, mentre le preghiere salgono da ogni angolo. Ma la bellezza di queste chiese armene sta in primo luogo nell’armo- nia che sanno creare con l’ambiente naturale circostante, che al visitatore di oggi pare troppo arido, ma che per secoli e secoli fu ricoperto interamente di alberi e vegetazione, ispirando arabescati e disegni dei khatchkar, disseminati su tutto il territorio. La chiesa ha una sua importanza anche per la storia dell’architettura, tanto che si parla di stile Hripsimech: l’edificio è il prototipo delle chiese armene a croce greca con cupola, sostenuta da quattro pilastri con nicchie che portano ad altre cappelle. Una struttura nata su precedenti tradizioni pagane, come testimoniano le pietre antiche delle fondamenta. Geghard È uno dei più suggestivi monasteri di tutta l’Armenia. È pura armonia, fusione con l’ambiente umano e con la natura, aspirazione umana e afflato divino sceso in terra. È di una pregnanza che ha pochi eguali. La storia di Geghard non è da poco: la leggenda vuole che sia stato lo stesso Gregorio l’Illuminatore a fondare nel IV secolo il monastero, che in origine consisteva solo in un insieme di caverne. Poi, nel 1215, fu fondato il vero e proprio monastero che ancor oggi si può ammirare dal basso – e allora pare un’escrescenza deliziosa della roccia -, oppure dall’alto – e allora può sembrare un’ardita astronave. Poi, nei secoli, furono aggiunti sepolcri e cappelle, per una storia che s’è fusa colle pietre. Colpisce il nartece a quattro pilastri centrali che s’invola in un lucernario aperto sul cielo, incorniciato da deliziose decorazioni a stalattiti sulla cupola. E si può ammirare uno dei più bei khatchkar mai scolpiti, quello di Timot e Mkithar, che data al 1213. Attorno al monastero, riprendendo tradizioni che superano spazio e tempo – analoghe pratiche votive le ho trovate, ad esempio, ad Efeso, alla casa di Maria, la Meryem Ana Evi, oppure in Tibet, al monastero di Drepung -, la pietà popolare stringe in nodi attorno ai rami più bassi degli alberi o agli arbusti fazzoletti e brandelli di tessuto in segno di devozione, quasi degli ex-voto, creando un’atmosfera punteggiata di bianco, come stelle in un firmamento verde. La visita ai tenebrosi locali del monastero è simile a quelle che avvengono in altri luoghi di culto armeni. La differenza qui la fa l’esterno, dove l’acqua e la pietra e la vegetazione avvolgono con attenzione tutta umana e tutta divina quello scrigno di fede, cultura e vita che è il Geghardvank. Goshavank La regione del Tavush conta decine di monasteri. Incastonato in montagne lussureggianti, dai rilievi arditi, ecco quello di Goshavank, che si compone di tre cappelle e di una biblioteca. Fu fondato nel 1188 da Mkhitar Gosh (uomo di Stato, scienziato e scrittore, autore di favole e parabole e del primo Codice di diritto penale), grazie alle sovvenzioni del principe Ivane Zagarian. Il monastero divenne così un fervido e attivo centro culturale dell’Armenia dell’epoca. Uno dei primi discepoli di Gosh, Kirakos Gandzaketsi, scrisse la prima Storia dell’Armenia. Entro nelle cappelle, ma altri minuscoli luoghi di preghiera s’aprono d’improvviso. Poi la sorpresa della biblioteca, una costruzione che all’esterno pare una cappella come le altre, ma che all’interno manifesta un carattere forte, ardito, fuori dal comune. Qui conveniva gente da lontano per consultare l’ottima biblioteca. Immagino i monaci armeni, coi loro cappucci a punta, intenti a scavare in manoscritti e incunaboli per tirar fuori qualcosa che dal passato potesse parlare al presente, e così farsi ponte al futuro per la gente credente. Li immagino pregare nelle cappelle e poi rinchiudersi nella sala di lettura carica sì di polvere, ma anche di senso. L’Armenia è pietre e cuori, che travalicano i secoli. Grazie anche ai vank, i monasteri che il visitatore di ogni età non dimenticherà per la vita. L’Armenia è pietà popolare anche in assenza di monaci.

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