Scultrice della relazione

Articolo

Supero il palazzo di Dolmabahçe dove Atatürk fu trasportato per portare a termine suoi giorni, ancora relativamente giovane, preda di una spietata cirrosi. Supero Besiktas, che in Italia conosciamo bene, per memoria calcistica. Supero un altro stupendo edificio ottomano, il Çiragan Palace, trasformato in un lussuoso hotel cinque stelle. E il Bosforo non mi abbandona, onnipresente e discreto, coscienza liquida della città di Istanbul, sicurezza e via di fuga, ponte e muro tra due continenti. È lo stesso Bosforo che, oltre un’ampia vetrata, accompagna la mia intervista con S¸ermin Güner, musulmana, turca e scultrice, un simbolo in certo modo dei paradossi e delle qualità del suo paese. Nel suo atelier a pianterreno – oggi due ragazze, due donne e un uomo prendono da lei lezioni di scultura o pittura -, una maschera dorata di Atatürk fa bella mostra di sé tra statue slanciate di ballerine e Madonne raccolte. S¸ermin è fiera di essere turca, e lo dice, e non nasconde la sua sconfinata ammirazione per il padre della patria. S¸ermin è laica, nel senso che scolpisce oggetti solitamente non trattati nei paesi islamici: il corpo, il movimento, il gruppo. Ma la sua fede musulmana è profonda, Maometto è il suo profeta e il Corano è sempre aperto sul suo comodino. Saliamo al suo salotto aperto sul Bosforo, dinanzi ad un busto di ottima fattura, un autoritratto. Mio padre – comincia il suo racconto – era un ufficiale dell’esercito in Anatolia. Ogni due o tre anni si cambiava di città: così ho conosciuto un po’ tutta la Turchia, e ho potuto amarla. Volevo perciò edificare belle dimore per i miei compatrioti, ma l’esame di ammissione alla facoltà di architettura andò male. Mentre per l’ammissione alle Belle arti il risultato fu lusinghiero. Poi la vita, quella bella e dura, venti anni di insegnamento, la famiglia, la vita sociale. Poi il vuoto, niente marito, niente più figli, niente più gratificazioni. Ho imparato l’italiano per occupare il tempo, alla Casa d’Italia. Ed ho seguito un corso a Perugia. L’Italia e la sua arte mi attiravano, volevo trovarvi qualche traccia anche a Istanbul. Ho conosciuto la chiesa di Sant’Antonio, e padre Arcangelo. E fu così che S¸ermin incrociò l’Italia, al punto che la sua vita cambiò. In meglio, tiene a precisare. Nel 1983, padre Kolbe fu proclamato santo. Mi fu perciò commissionato un suo busto, anche se come modello non avevo che una piccola foto formato tessera. Mi aiutò comunque la preghiera: sapevo che Kolbe avrebbe voluto venire a lavorare in Turchia, e questo mi rese attenta alla sua spiritualità. Fu questo il mio primo contatto con i cristiani. Erano fratelli miei, come i musulmani. In una delle sue sempre più frequenti visite in Italia, S¸ermin si ritrovò a Loppiano, cittadella dei Focolari. Naturalmente non le passò inosservato l’atelier di scultura, gestito da Tecla Rantucci e Ave Cerquet- ti. Volle lavorarci per un giorno intero. Aveva appena perso il fratello – una perdita per lei gravissima – e quelle ore passate a modellare la creta furono per lei un toccasana. Non perderò più di vista queste persone, si disse. E non le perse: a tutt’oggi, per 18 volte la scultrice turca ha fatto visita nella cittadella toscana. La seconda visita durò un mese. E le fu affidato il compito di scolpire una via crucis; a lei, che non nascondeva certo la sua fede musulmana. Arte come strumento per il dialogo tra fedi diverse? Perché no. Con la mia arte, che è un’ispirazione di Dio, posso mettere a disposizione di chiunque, al di là della fede, quell’amore che la esprime. Arte è comunicazione, al di là delle differenze di cultura e di credo. In una mostra delle mie sculture organizzata al chiostro di Santa Croce, a Firenze, come si usa ho lasciato a disposizione dei visitatori un album per scrivere qualche impressione suscitata dalle mie opere. Ho costatato che il linguaggio dell’arte supera barriere altrimenti difficili da eliminare. Un visitatore ha scritto: Le sue sculture sono molto vicine ai misteri cristiani: e una donna ha ravvisato l’aria di Istanbul nella morbidezza e nel leggero dinamismo delle sculture. Mentre un critico d’arte vi ha trovato l’universalità dell’arte, la fratellanza fra gli uomini. L’arte come linguaggio universale. Grazie al soggiorno a Loppiano, all’arte creata e praticata – prosegue S¸ermin -, ho cominciato a vivere più responsabilmente la mia fede musulmana. Anche partecipare alla messa dei miei amici cristiani – io pregavo Allah in turco – mi avvicinava al Dio clemente e misericordioso. Mi sento più che mai musulmana, anche perché mai nessuno del focolare ha cercato di convertirmi. S¸ermin mi spiega il significato di alcune sculture, mentre in un angolo della sala l’accoglienza squisita di queste parti ha imbandito un piccolo banchetto. La caratteristica più importante dell’Islam è la purezza dell’amore. È ciò che cerco di far trasparire nella mia arte, che come soggetto ha sempre e comunque la relazione: tra madre e figlio, tra uomo e donna, tra chi dà e chi riceve. È l’amore che rappresento. Lo so, nell’Islam per tanto tempo è stato vietato dipingere o scolpire. Qui in Turchia, invece, è permesso di praticare questi tipi di arte. Per me è un passo in avanti. Tuba e Belma, le due giovani sorelle che prendono lezione da S¸ermin, convengono con la loro insegnante. L’hanno conosciuta in un centro di aiuto per i bambini meno favoriti, organizzato da gente di buona volontà per impedire che si trovassero nella strada. Un lavoro che continua anche oggi – una quarantina sono gli insegnanti volontari nel centro -, perché l’arte – conclude S¸ermin – non può che avvicinare alla verità, che è l’amore.

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