Scolpire col fuoco

Ha 57 anni, è cinese, è scultore, e sa l’arte del dialogo. Lau Kwok Hung vive a Loppiano.
Lau Kwok Hung
A 1.700 metri s.l.m, la sua ultima opera è un grande volto che si erge su uno sfondo di alberi. Più che una scultura, sembra un disegno tridimensionale fatto di linee dove predominano i vuoti, e per questo si fonde quasi con la natura circostante, il pascolo Wildschönau, di cui sembra rappresentare l’anima. Lau Kwok Hung ha realizzato all’aperto questa ed altre sculture in Austria. Ma il suo vero laboratorio ha sede a Loppiano, la cittadella dei Focolari, dove ho modo di ammirare le sue originali sculture in ferro. Ed è proprio lì che m’intrattengo con l’amico.

 

Hung, la tua vocazione artistica risale alla prima giovinezza o è maturata più tardi?

«Da piccolo amavo disegnare. All’età di sei anni ho cominciato a praticare la calligrafia. Ma per la mia famiglia, l’arte non era fra le opzioni per un eventuale mestiere. Più tardi, a 19 anni – ormai vivevo qui a Loppiano – facendo lavori artigianali presso il Centro Azur Arte, mi si è consolidato il concetto della vocazione artistica. Nel 1975 ho iniziato lo studio di Belle Arti a Firenze. Lo stesso anno, sono entrato a far parte del complesso Gen Rosso: danzare e cantare di fronte alla gente è stata una nuova sfida per me che ero piuttosto timido, ma era anche esplorare nuove forme per esprimermi, e acquisire una sempre crescente coscienza sulla mia relazione con i miei interlocutori, il pubblico».

 

E dopo gli anni passati al Gen Rosso, una volta conseguito il diploma dell’Accademia?

«Immaginavo aprirsi per me una strada dorata, quella dell’arte, che mi avrebbe condotto chissà dove. Ma non è stato così. Ho trascorso otto anni nelle Filippine, a fare il dattilografo: era un lavoro che non sembrava avesse niente a che fare con l’arte, ma aveva un senso perché conseguente alla mia scelta di cooperare all’evangelizzazione. L’ho colta anche come una cosa da Dio: il suo invito per me a sondare la sua fantasia. In concreto, come impiegato per la “Città Nuova” inglese, “New City”, avevo il compito di assicurare la redazione e l’impaginazione del bimestrale. Come per il pubblico del Gen Rosso, così ora, per i miei lettori, stavolta “invisibili”, mi sono impegnato a dare sempre il meglio di me stesso, con perfezione e con tanta tanta fantasia. Equivalevano per me, quegli otto anni, come a un periodo del “dottorato” nell’arte: dal vissuto ho capito molte cose. Il punto focale? Su cosa voglia dire “essere” artista. Ma poi, guarda caso, la vita m’aveva affidato dei talenti artistici… ed ora, trafficandoli, “eccone altri” moltiplicati fra le mie mani».

 

Cos’è successo dopo quegli otto anni nelle Filippine?

«Mi sono trasferito a Montet, la cittadella svizzera dei Focolari, dove ho ripreso a fare ciò per cui in fondo mi ero formato: scolpire. Nell’impresa di ripartire con l’arte e nella ricerca d’una via nuova che mi contraddistinguesse, un giorno, osservando un fabbro alle prese con strumenti metallurgici, sono rimasto “folgorato” dalla potenza dell’elemento Fuoco, che rende docile l’acciaio. “Da oggi in poi,” mi sono detto, “scolpirò col fuoco!” Una volta decantata l’euforia di quell’”Eureka”, e pagato poi il prezzo (qualche bruciatura) per diventare amico di questo “fuoco”  (la fiamma ossidrica) quel giorno ho già “visto” queste opere che vediamo qui nello studio, realizzate tanti anni dopo. Ero sicuro che ci sarei arrivato».

 

Una volta scoperte le nuove possibilità di fare sculture col ferro e col fuoco, cos’ altro è successo?

«Per tre anni vivevo delle prime promesse di questa forma d’arte “trovata”. Ma poi le circostanze erano tali che ho dovuto “lasciare le reti” – come facevano i discepoli per seguire Gesù: sono stato chiamato per un altro compito in Corea, dove per sette anni mi sono occupato d’altro, senza più “toccare il ferro” – se non quello da stiro.

Nel 2000, per espresso desiderio di Chiara Lubich, ho ripreso a fare lo scultore e mi sono stabilito qui a Loppiano. Chiara s’interessava dei miei sviluppi e non mancava mai di mostrarmi la sua premura materna. Anche adesso, sento che lei continua a starmi vicino, a ispirarmi».

 

La tua ricerca artistica dove t’ha portato ancora?

«Dove mi porterà? Ad essere sempre più me stesso, spero. Parlo della “vena ritrovata” della calligrafia. Per millenni in Cina, la calligrafia è stata l’arte suprema, la disciplina che spiega tutte le altre discipline; una forma d’arte che è antica e contemporanea nello stesso momento, tanto da affascinare non pochi grandi artisti europei (gli impressionisti, Mirò, Picasso, ecc.) Negli ultimi anni ho mantenuto l’abitudine d’iniziare la mia giornata con circa mezz’ora di esercizio calligrafico. E’ il tempo per collegarmi con la mia radice. E’ il dialogo con l’elemento Acqua (inchiostro). Poi, rivestito di tenute ignifughe, dedicherò il resto della giornata al dialogo col Fuoco. C’è una continuità alternata che unisce i due dialoghi; è la medesima ricerca estetica sulle linee di forza: come nelle pennellate d’inchiostro che formulano gli ideogrammi, così nelle tratteggiature fatte di ferro che simulano gli elementi grafici degli schizzi anatomici. »

 

Nelle tue figure umane dai molta importanza alle mani…

«Le mani sono un po’ la geografia di un’anima, esprimono il vissuto. Nelle arti, le mani gesticolano, a volte assumono atteggiamenti retorici. Io preferisco invece rappresentarle legate a un mestiere, come puoi notare nelle mie sculture di musicisti».

 

Ricorrente è il tema del viaggio: i cammelli, le giunche…. Viaggio che prelude all’incontro tra popoli, a scambi non solo commerciali, ma anche culturali.

«Xíng, il viaggiare, è uno delle basilari necessità del popolo. Si-Lù, La Via della Seta, il cui punto di partenza era Xi-An, una delle antiche capitali della Cina, è una realtà intima a molti cinesi, per la consapevolezza di aver dato qualche contributo a questa grandiosa storia di scambi tra Oriente ed Occidente, che può definirsi anche come l’inizio della moderna globalizzazione nel senso positivo. La Via della Seta è richiamo per me d’una verità: ogni persona che ha la coscienza di essere un dono per gli altri non conosce le frontiere. Annualmente faccio ritorno in Cina non solo perché coinvolto in eventi artistico-culturali, ma anche per essere, e ravvivare, questo ponte tra Oriente e Occidente».

 

E ci colleghiamo al capitolo dei workshops di calligrafia cinese che proponi al pubblico da queste parti…

«Trovandomi spesso in ambienti cosmopoliti, ho vissuto sulla mia pelle le tante tensioni e conflitti. Ormai non mi scandalizzo più nel vedere le ostinate discriminazioni anche negli ambienti dichiaratamente benevoli. Finché ho capito: “Come mai recriminare per il buio quando si potrebbe accendere una candela?” Con la determinazione, da allora, di consacrarmi per le future generazioni, per quanto dipende da me, abbattendo una sorta di muraglia di disinteresse e di pregiudizio, ho realizzato nel 2005 il primo di questi workshops. Giocondi, interattivi, stimolanti, questi workshops promuovono una mentalità interculturale e preparano chi ne partecipa a diventare agenti del dialogo. Fino ad oggi ho svolto più di 150 workshops, in molte nazioni, con persone di tutte le età, con lusinghieri risultati».

 

Vivendo qui a Loppiano, hai avuto moltissimi contatti con il pubblico. Quali commenti fa in genere la gente davanti alle tue sculture?

«Dai bambini agli adulti, dagli esperti d’arte alle persone meno preparate in questo campo, sono ormai migliaia i visitatori passati per il mio atelier, da cui molto spesso mi son sentito aiutato nella mia ricerca, tra l’altro, di verità. Vedere persone commuoversi, anche non-vedenti gioire dopo aver toccato qualche mia opera, è il compenso alla mia fatica e ai miei sacrifici. Senza contare personaggi particolari come il regista Ermanno Olmi, che ha fatto una sua osservazione: “Tu esprimi le cose come sono, nella loro semplicità e verità, non ricerchi l’effetto, come purtroppo fanno tanti altri artisti che attingono qua e là per decorare sé stessi, per dire ciò che loro stessi non sono e spiegare ciò che non sanno”».

 

Oggi anche nell’arte si parla di “lavorare in équipe”. Come vedi questo, tu che lavori da solo?

«Certamente, se c’è la possibilità di confrontarsi, che ben venga. E puntualmente la vado a cercare io stesso, per poter sempre crescere. La mia opinione è che, pur essendo una modalità consigliabile, lavorare in équipe non automaticamente garantisce un prodotto convincente e geniale. Non può sostituire il lavorìo, i tormenti personali che, se autentici, portano tanti nuovi frutti. Nella storia ci sono stati artisti che nella solitudine hanno saputo produrre opere eccelse, universali, e non credo che questo tempo sia già superato. A proposito di modalità o di estetiche, ecc., nell’arte, oggi c’è chi esalta le proprie in modo esasperato. “L’Arte è qui! l’Arte è là! Seguiteci!” Quanta auto-referenzialità per una quasi-religione. Di fronte ad una tale fede, una voce nel mio intimo mi suggerisce di rimanere ateo».

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