Scenari di guerra e attualità della legge 185/90

Guerra e politica. I 30 anni difficili di una legge che ha cercato di applicare i valori costituzionali nella produzione e vendita di armi. La contraddizione delle recenti commesse belliche e l’emendamento Mattarella dal quale poter ripartire.
Guerra e movimenti per la pace AP Photo/Massimo Sambucetti)

Guerra e armi. 30 anni fa, il 9 luglio del 1990 l’Italia arrivò ad approvare una legge che cercava di mettere ordine in materia di produzione e vendita dei sistemi d’arma.

Un settore fino ad allora consegnato al segreto di Stato in base ad una normativa che risaliva all’epoca fascista. Una riservatezza che, comunque, non si era rivelata idonea ad evitare il coinvolgimento del nostro Paese in scandali eclatanti come il caso Lockheed, un ben oliato sistema di tangenti dell’industria statunitense che coinvolse i vertici di diversi stati, o quello della filiale della Bnl di Atlanta, utilizzata per finanziare il riarmo dell’Iraq di Saddam Hussein. Per non parlare della produzione colossale di mine antiuomo, tuttora presenti in tanti Paesi, anche dopo anni dalla fine dei conflitti.

Un’area grigia che non giovava alla reputazione di una nazione democratica nata da una Costituzione che ripudia la guerra. Eppure lo scatto decisivo per un cambiamento radicale arrivò da una campagna di pressione (“Contro i mercanti di morte“) che vide lavorare assieme il mondo associativo civile e quello dei missionari cattolici assieme a settori significativi del sindacato (da Alberto Tridente a Gianni Alioti) e una reale sponda politica in parlamento.

Un forte movimento dal basso
La legge 185 del 1990 arrivò dopo un decennio di forte impegno civile e coincise con il tempo immediatamente successivo alla fine del sistema sovietico. Decisiva fu l’esposizione personale dei lavoratori che si rifiutarono di produrre armi destinate a Paesi in guerra o artefici di violazioni dei diritti umani.

E il complesso di quelle norme pose in maniera esplicita il divieto di tali forniture obbligando alla rendicontazione trasparente in Parlamento delle vendite e al trasferimento dei sistemi d’arma. Un testo che prevede anche il finanziamento necessario per politiche industriali di riconversione economica della produzione. Strumento necessario per liberare i lavoratori da ogni prevedibile ricatto occupazionale.

La storia dell’applicazione di questa legge, ricostruita da un dossier dell’Iriad, documenta una serie di attacchi sistematici, dall’aggiramento dei vincoli in base ad interpretazioni della normativa europea al mancato finanziamento del fondo per la riconversione.

Anche la rendicontazione in Parlamento dell’export militare è diventata sempre più incomprensibile, anche se sappiamo che i maggiori destinatari sono Paesi non appartenenti alla Nato.

Da parte sua, Finmeccanica, ora Leonardo, società sotto controllo pubblico, ha portato avanti in maniera bipartisan una progressiva conversione del core business dal settore civile a quello militare. Tanto che l’impennata dell’export bellico nel 2016 si è realizzata con l’accordo per la vendita di 28 caccia bombardieri al Kuwait promosso dall’allora governo Renzi.

Mentre è di questi giorni di crisi da pandemia che il governo Conte 2 ha concluso la vendita all’Egitto di due fregate Fremm come anticipo di una mega fornitura di oltre 11 miliardi di euro a tale Paese che riceve i finanziamenti dall’Arabia Saudita. In questo caso la società coinvolta è Fincantieri, sempre sotto controllo pubblico, che ha anche definito la fornitura di navi da guerra agli Usa, tramite una sua società statunitense che si è impegnata con altre commesse dirette nei confronti dell’Arabia Saudita. Paese, quest’ultimo, a capo di una coalizione militare impegnata nella guerra in Yemen e tra l’altro destinatario di bombe prodotte in Italia da una società controllata dal gruppo tedesco della Rheinmetall.

Un confuso mondo globalizzato
In questo «complesso e confuso mondo globalizzato», secondo Michele Nones, autorevole esponente dell’Istituto affari internazionali, «una decisione unilaterale italiana (di non fornire armi a tali Paesi, ndr) porterebbe in ogni caso solo a fare spazio ai nostri numerosi concorrenti». Per l’esperto analista dell’Istituto fondato da Altiero Spinelli, vendere le fregate Fremm all’Egitto così come così la fornitura già effettuata di «navi e elicotteri al Qatar, gli addestratori in Israele, e i velivoli da combattimento al Kuwait», rappresenta un’espressione di maturità in nome dell’interesse nazionale di «rafforzare i legami con il maggiore Paese della sponda sud del Mediterraneo, che costituisce, da molti decenni, la chiave di volta del Nordafrica e del Medio Oriente».

Di parere nettamente contrario l’ammiraglio Giuseppe De Giorgi, già capo di stato maggiore della Marina, secondo il quale «chi immagina che sottomettendoci alla volontà del generale Al Sisi, l’Italia si assicuri la protezione dell’Egitto, a tutela dei nostri interessi in chiave anti turca, è destinato a rimanere deluso. È assai più probabile che, in Libia e nel Mediterraneo, Turchia ed Egitto finiscano per mettersi d’accordo per spartirsi la regione in aree di influenza».

De Giorgi, da militare, invita ad applicare la legge 185/90 e avverte che la prevista delocalizzazione del personale di Fincantieri in Medio Oriente ci renderebbe ancora più fragili. C’è infatti da tener presente, come denunciano i sindacati, che le maestranze impegnate anche in Italia da parte di Fincantieri sono precari di commesse esterne. Tanto per sfatare il mito delle armi che portano lavoro.

Anche per l’ex viceministro agli esteri, Mario Giro, è conveniente per l’Egitto trovare un accordo per la spartizione della Libia con Ankara, che si muove come padrona del territorio e si avvicina pericolosamente ad un conflitto con la Francia, con il rischio di vederci trascinare in una guerra più seria e incontrollabile di quella del 2011. «La guerra è vicina ma italiani ed europei non se ne accorgono» dice Giro e «se c’è guerra a nulla servirà il Recovery Fund».

Risorse da sottrare alle armi
Su questa linea si pone il Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale della Santa Sede che in una conferenza stampa del 7 luglio sull’emergenza Covid ha ribadito che oggi sono indispensabili risorse adeguate per «le forniture mediche, la sicurezza alimentare e la ripresa economica incentrata sulla giustizia sociale e sull’economia verde». Risorse «che possono essere sottratte al settore militare nel contesto di un rinnovato controllo degli armamenti».

La cristi attuale che «combina la pandemia da Covid 19 con l’avventurismo nazionalista e la disuguaglianza economica» si presenta con caratteristiche troppe simili al clima precedente alle due ultime guerre mondiali. Uno scenario inquietante che richiede l’impegno di “leader coraggiosi” secondo Alessandra Smerilli, l’economista salesiana coordinatrice  della “Task-force economia” della commissione vaticana per il Covid-19.

Un profilo di responsabilità che in Italia pare corrispondere a quello del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che, da deputato, nel 2005, come fa notare Maurizio Simoncelli di Iriad,  contestò lo svuotamento di fatto della legge 185/90 proponendo un emendamento bocciato dall’allora maggioranza parlamentare.

Si potrebbe ripartire da tale emendamento per ridare forza a quella legge, mentre un riconoscimento pubblico andrà compiuto, prima o poi, verso quei lavoratori che hanno esposto la loro vita per conquistare una norma in grado di far entrare la Costituzione nelle scelte economiche strutturali e quindi nei luoghi di lavoro.

Qui il video della presentazione del rapporto sulla legge 185/90 ad opera di Rete italiana disarmo e Rete della pace

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