Cosa significa per noi giornalisti l’impegno quotidiano di informare? Sono cresciuto a Carloforte, sull’isola di San Pietro, di fronte al polo industriale di Portovesme. Raccontare l’isola è stato raccontare fin dall’adolescenza ciò che caratterizzava l’isola di un isola, che si trova, come dicevo, di fronte al polo industriale di Portovesme, segnato da decenni di crisi che si riverberano sulla vita di tante, troppe, persone, esempio di come manchi una visione strategica complessiva.
Impiantare industrie energivore in un’isola priva di fonti energetiche, se non quelle legate agli idrocarburi, dimostra acume? Un economista mi ha ricordato che le banane è meglio farle ai tropici e i ghiaccioli ai poli, non viceversa. Questa zona della Sardegna, da sempre legata alle produzioni primarie estrattive, possiede un patrimonio ambientale, naturalistico e culturale di grande pregio. Eppure si fa fatica a valorizzare le eccellenze, dalla natura al cibo, dalla storia all’archeologia industriale.
Il modello di sviluppo, quello ottocentesco legato solo alla fabbrica, è superato. Qui esiste l’unico distretto del tonno rosso, pescato secondo antiche tradizioni, eco sostenibile, perché le tonnare stanziali non depauperano il patrimonio ittico, considerando che nelle reti finiscono gli esemplari più deboli, quelli più forti e agili riescono a evitare la cattura. Nel quotidiano impegno in redazione, ora in radio a Cagliari, per 20 anni al settimanale Il Portico, ho sempre cercato di raccontare la vita di chi ogni giorno prova a dare il proprio contributo per renderla migliore agli altri e a se stessi.
Sulle pagine di Città Nuova quasi 20 anni fa, agli esordi della crisi del polo industriale di Portovesme, ho raccontato la storia di una famiglia, quelle denominate numerose, con tre figlie e una adottata proprio nel tempo in cui il padre iniziava il calvario dell’industria del Sulcis: narrare di chi non si rassegna a ciò che accade ma guarda avanti, con una prospettiva di speranza.
Una speranza che ad esempio è rappresentato da eccellenze produttive della zona, nel settore agro-alimentare, alcune delle quali aderiscono alla rete War-Free, una risposta concreta a chi pensa che senza produzioni dannose per l’ambiente e le persone, eticamente e moralmente inaccettabili, sia impossibile vivere. Nella radio dove lavoro ha intervistato un amministratore locale della zona, che confermava come senza la produzione bellica il territorio avrebbe patito la perdita di centinaia di posti di lavoro. Nessun accenno però alle conseguenze che tali produzioni avrebbero avuto sulle popolazioni vittime dei conflitti.
Da un lato occorre denunciare l’insensatezza dell’economia bellica, dall’altro raccontare e sostenere chi, qui dove il ricatto occupazionale sembra prassi accettata, prova a mostrare che un nuovo modo di lavorare e produrre è possibile. Serve una narrazione diversa, quella che vede progetti di messa in rete i comuni, di eccellenze del territorio, dall’agro-alimentare al turismo, dalla archeologia mineraria, penso al Parco Geominerario, fino alla storia, alla cultura e anche alla fede che da sempre caratterizzano questa zona.
Per noi giornalisti, raccontare l’isola e vedere il mondo significa dare voce a chi propone una visione economica che superi quella legata a logiche che nulla hanno a che fare con la persona. Come collaboratore di Avvenire, di In Blu Radio, di Città Nuova, oltre che di redattore di Radio Kalaritana, ho cercato e cerco di raccogliere le voci di piccoli e grandi imprenditori che provano ad invertire l’attuale paradigma economico, ponendo al centro la persona e perseguendo il giusto fine economico aziendale senza sopraffazioni. Non si tratta di raccontare le cosiddette “buone notizie” ma le notizie, perché di fatto lo sono. Mi chiedo per quale logica l’economia libera da vincoli bellicisti non deve trovare spazio.
Ciò che accade qui, il tentativo di liberare questa terra dai vincoli che la tengono prigioniera da troppo tempo, va divulgato e proposto. Il nostro ruolo, quello di giornalisti, ce lo impone: una notizia va data, non va sottaciuta. Il criterio del rilevante interesse pubblico, fondamentale per trasformare un fatto in notizia, va applicato anche ad una visione economica libera dalla logica bellica e che pone al centro le persone e il loro ambiente, due elementi che nell’attuale narrazione non trovano spazio, calpestati dal profitto e dalla finanza, questi ultimi foraggiati da ricatti occupazionali e sopraffazioni.
Invertire il paradigma: questo è il nostro compito e per farlo abbiamo necessità di prendere consapevolezza del nostro ruolo, anche all’interno delle nostre redazioni. Papa Francesco, il cui magistero mi sembra sia stato frettolosamente messo da parte dal sistema mainstream, lo scorso gennaio, ricevendo i giornalisti per il Giubileo dei Comunicatori, al quale ero presente, ha ricordato. «In questo nostro tempo segnato dalla disinformazione e dalla polarizzazione, dove pochi centri di potere controllano una massa di dati e di informazioni senza precedenti, mi rivolgo a voi nella consapevolezza di quanto sia necessario – oggi più che mai – il vostro lavoro di giornalisti e comunicatori. C’è bisogno del vostro impegno coraggioso nel mettere al centro della comunicazione la responsabilità personale e collettiva verso il prossimo».
Nel suo messaggio per la 59ma Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali ha scritto: «Ho già ribadito più volte la necessità di “disarmare” la comunicazione, di purificarla dall’aggressività…Non porta mai buoni frutti ridurre la realtà a slogan».
A noi il compito di invertire la deriva che segna i nostri tempi.