Sarah Scazzi in tivù

«Perché quando guardo la televisione mi devo sorbire per l’ennesima volta il delitto di Sarah Scazzi? Non ne posso più e rischio di diventare insensibile a quanto è successo». Antonio ‑ Nuoro
Sarah Scazzi

«Perché quando guardo la televisione mi devo sorbire per l’ennesima volta il delitto di Sarah Scazzi? Non ne posso più e rischio di diventare insensibile a quanto è successo».

Antonio ‑ Nuoro

 

Quello che dici è giusto e testimonia il pensare di molti telespettatori, nauseati dal continuo ripetersi in tutti i programmi di intrattenimento delle solite notizie inerenti gli omicidi e le violenze reiterate.

In questo modo, l’omicidio sembra non avere mai fine e il dramma continuare ininterrottamente fino al punto che si diventa insensibili alla sofferenza. Rimane solo una curiosità morbosa che anestetizza ogni sofferenza.

 

Del resto è significativo che la società contemporanea, che affronta ripetutamente argomenti inerenti omicidi e barbarie, non sia minimamente in grado di dare senso alla sofferenza e alla morte. Sì, perché il punto in questione è questo: perché parlare del dolore senza una minima prospettiva di senso?

È questo un sistema perverso e mostruoso di gestire la sofferenza, perché spettacolarizza il dramma e vìola l’intimità delle persone alla ricerca spasmodica del colpevole, senza fornire aiuto e un vero conforto. Resta nell’intimo un senso di impotenza e di scoraggiamento.

 

Aveva ben ragione Paul Ricoeur, il famoso filosofo francese quando a proposito della morte e della sofferenza, diceva che il dramma di oggi è la completa mancanza di senso, la solitudine ove vengono relegate queste esperienze dell’umano.

Perché il modo migliore per affrontare il dolore e la sofferenza è quella di cominciare sin da piccoli quando, di fronte alle sofferenze naturali della vita, i genitori e gli educatori testimoniano ai piccoli che queste fanno parte della vita e che occorre viverle e rispettarle. La morte e la sofferenza hanno bisogno di dialogo, di relazioni, di parole vissute, affinché possano essere di conforto e di sollievo.

 

Occorre evitare sia il nascondimento (oggi quando si muore bisogna fare presto e non bisogna parlarne), che la spettacolarizzazione (in questo modo la morte e la sofferenza non si affrontano ma vengono utilizzate per eccitare emotivamente fino alla nausea), e, invece, comunicare con le parole vissute la partecipazione sofferta e comunque speranzosa.

 

In questo modo i bambini, i ragazzi e i giovani comprendono che la morte e il dolore fanno parte della vita e che possono dare molti insegnamenti nel ricordarci che occorre vivere bene al servizio dei fratelli, proiettati verso il bene.

Si sperimenta così che la sofferenza, pur nel dolore, se vissuta umanamente fino in fondo, può essere foriera di luce e di amore.

acetiezio@iol.it

I più letti della settimana

Chiara D’Urbano nella APP di CN

La forte fede degli atei

Mediterraneo di fraternità

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons