Sanremo 2008: diario di uno scampato

Non era difficile, eppure c’ho messo alcuni decenni a capirlo: il Festival bastava non guardarlo. E il vostro cronista l’ha fatto. Non l’ha guardato. Manco un minuto. È vero, ogni cronista avrebbe il dovere deontologico di seguire un evento, a prescindere dai suoi gusti e dai suoi magoni. Un evento, appunto: non un polpettone già svaporato nella polvere del cosmo un attimo dopo che si s’è compiuto. Quindi lo confesso: nessun senso di colpa. All’esordio del lunedì ho preferito un delizioso filetto alla Taverna del Buttero per onorare il ricordo di un vecchio amico. Martedì memorabile derby Juve-Toro. Mercoledì mi son visto il resto del campionato, il giovedì sera l’ho passato con un bel po’ di colleghi alla Casa del cinema di Villa Borghese, a gustarmi l’anteprima dell’intenso To die in Jerusalem della regista israeliana Hilla Medalia, il venerdì cenacolo sui massimi sistemi con un paio d’amiche, e il gran finale di sabato me lo sono fumato sulle pagine de L’eleganza del riccio. Risultato: mai stato così bene. Devo aggiungere che anche così non ho affatto l’impressione d’essermi perso il Festival, ma piuttosto d’aver guadagnato un po’ di tempo per cose più degne. Anche perché devo ammettere di non esser riuscito a dare alla mia astinenza la radicalità che desideravo: perché il benedetto m’entrava dentro dappertutto durante il giorno tramite ogni mezzo di comunicazione, dai quotidiani alle suonerie, dalle radio alle sentenze della gente per strada; e va detto che il Sanremo della chiacchiera è sempre infinitamente più divertente di quello reale. Così ho saputo delle stecche di Tizio e di Caio, ho letto tutte le parolacce di Baudo e tutte le battute di Chiambretti; ho intuito che le emozioni migliori le ha regalate un pianista cinesino e ho saputo che han sbattuto fuori la Bertè perché la sua canzone era stracopiata, e che le altre erano mediamente mediocri ma i duetti mediamente carini. Ah, ho saputo anche che tra i giovani han vinto i Sonohra anche se per molti colleghi erano meglio i Frank Head (figli e pregevoli alfieri del neo precariato discografico) e i La Scelta; così come ho il forte sospetto che il brano dell’accoppiata musichiera Lola Ponce & Giò Di Tonno – i vincitori assoluti di quest’anno – non fosse all’altezza della belle canzoncine di Max Gazzè e del lunare Tricarico. Amen, il Paese se ne farà una ragione. Anzi, mi sa che se l’è già fatta da un bel pezzo. Dunque quest’anno non ho visto il Festival. Temevo di passare per snob o bastiancontrario, poi sono andato a guardarmi i dati d’ascolto è ho capito che continuo, ahimè, a far parte del gregge. Giacché i veri snob quest’anno il Festival l’hanno visto, e l’han perfino gradito. CD Novità Hoosier The trick to life (Sony-Bmg) Questi tre ragazzotti anglo-svedesi chiamano la loro musica odd-pop (una sorta di pinzimonio pop). E in effetti l’etichetta gli s’addice: dentro c’è l’estroversione un po’ guascona del brit-pop più solare, l’energia del flowerpunk, la magniloquenza dei Queen o di Rufus Wainwright, perfino qualche spruzzata di crepuscolarismo minimale à la Damien Rice. Il disco è gradevolissimo e rifinito con grande cura. In Inghilterra sono la band del momento, qui da noi cominciano a far capolino nelle playlist con una certa insistenza. Buon proseguimento. Giua Giua (Sony-Bmg) Una delle più belle sorprese dell’ultimo Festival. Al di là del singolo Tanto non vengo, l’album rivela una cantautrice di razza, con uno stile a mezza via tra la leggerezza della Di Michele e la profondità di una Mannoia. La produzione di Beppe Quirici (un fedelissimo di Fossati) garantisce al lavoro gusto e sostanza. Tra i solchi molte delle ansie e dei disincanti dell’oggi: raccontati con poesia, classe e personalità.

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