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Firme > Terra e cielo

Saggezza della follia

di Michele Genisio

Può esserci esperienza religiosa senza follia? Una provocazione…

Quando, nel corso delle vicende umane, alcune espressioni religiose battono il naso contro il muro dei guai o delle imperfezioni scaturite dalla modalità con cui hanno gestito l’esuberanza del proprio carisma, allora corrono ai rimedi. Invocando e mettendo in atto pratiche di buon vivere sociale, di politically correct, di trasparenza e di condivisione nei processi organizzativi e operativi. Tutto sembra così diventare normale e i difetti di un tempo vengono raddrizzati.

Dopo di che, ci si guarda dietro le spalle e a volte si nota un fenomeno imprevisto: nessuno bussa più alla porta, nessuno è più curioso di sapere chi siamo. Si è diventati non attraenti, insignificanti. Perché? Ci si lancia in analisi, dando in genere la colpa alla storia e ai cambiamenti sociali e tecnologici in atto. Senza accorgersi che così facendo si entra nell’ottica del piove, governo ladro. La colpa è sempre di altri, di altro. Mentre l’atteggiamento maturo, in questo caso come sempre nella vita, non è recriminare ma chiedersi: io, cosa posso fare?

In quest’ottica, vorrei proporre di guardare le cose da un’angolatura insolita. Chissà che possa essere utile. Credo che lo sforzo pur necessario di normalizzazione e razionalizzazione, messo in atto per correggere modalità oggi non più ritenute accettabili, abbia avuto un effetto collaterale: chiudere nell’armadio, sotto chiave, un elemento indispensabile per l’esperienza religiosa, ed anche per l’esperienza d’amore e la creatività: la follia. È necessaria una precisazione. Quando parlo di follia qui parlo di una esperienza vitale che rompe i limiti dell’Io senza distruggerlo, un’esperienza in cui la persona resta in contatto con la realtà, anche se la vive in modo più intenso, simbolico, da angolature inusuali.

È una follia che genera, non che distrugge: può portare all’arte, a scelte coraggiose, a intense esperienze spirituali. Tutt’altra cosa è la follia del malato psichiatrico, che è una rottura del legame con la realtà, e che porta a esperienze deliranti, vissute come assolute e incontestabili. Qui parlo solo del primo tipo di follia.

Faccio un paio di esempi, tirando in ballo fatterelli agiografici riferiti nei Fioretti a quel personaggio straordinario che è stato san Francesco. Un giorno Francesco volle mettere alla prova l’obbedienza di frate Ginepro – uno dei suoi discepoli più umili e semplici – e gli chiese di piantare i cavoli nell’orto «con le radici all’insù». Frate Ginepro, senza discutere, obbedì con gioia e lo fece. Quando un altro frate, vedendo l’assurdità del gesto, lo rimproverò, Ginepro rispose più o meno così: «Frate, non mi tocca giudicare se la cosa sia sensata o no; a me basta obbedire per amore di Dio e del mio padre Francesco». Questo episodio oggi potrebbe essere visto come un segno di pazzia da parte di Francesco e di un suo abuso di potere, comandando al frate di fare una cosa assurda. Ma vederlo in questa ottica sarebbe non capire nulla di cosa avveniva nel contesto.

Si viveva un’esperienza straordinaria di follia, di irruzione della presenza di Dio nella vita di un gruppetto di uomini. Dovunque nel mondo si piantano cavoli con le radici all’ingiù, ma chi è mai stato attratto da quei contadini? Invece tanta gente accorreva per unirsi alla straordinaria novità dell’esperienza di Dio fatta da Francesco e dai suoi compagni. In un altro episodio dei Fioretti san Francesco ordina a un suo confratello, Frate Ruffino, di andare a predicare in una chiesa «colle sole brache». Frate Ruffino, un tipo timido e riservato, si supera grandemente ma obbedisce, entra nella chiesa e predica. La gente reagisce con risa e scherni. Lui, imbarazzato a morte, rimane lì, in silenzio. Allora interviene Francesco che, colpito dall’obbedienza del fratello e dalla durezza del suo comando, si toglie anche egli i vestiti e si presenta «quasi ignudo» davanti ai fedeli, tenendo in mano una croce col Cristo ignudo. La gente in chiesa ammutolisce. E Francesco predica. Frate Ruffino impara una lezione che non dimenticherà per tutta la vita: l’apparire folli agli occhi degli uomini è un segno di saggezza agli occhi di Dio. Lo scriveva già san Paolo: «La follia di Dio è più sapiente degli uomini».

Il folle spesso è colui che ama senza misura, che soffre per la verità, che vede ciò che gli altri non riescono a vedere. Tanti santi, da Ildegarda da Bingen a Teresa d’Avila, hanno parlato di amore folle per Dio, madre Teresa di Calcutta parlava di follia della carità. «Quando ti si ama Signore? – scriveva Chiara Lubich – Quando ti si trova. Quando ti si trova sicuramente? Quando si confida solo in Te e pazzamente si butta lo sguardo in alto e si cerca solo Te». Quando la follia è segno di un’intensa esperienza spirituale, non lascia indifferenti. Attrae, contagia positivamente.

Già Platone, parlando dell’amore, scriveva: «In verità, il più grande dei beni ci viene attraverso una follia, concessa per dono divino». Come la completezza psicologica di una persona sta nel riuscire ad integrare quanti più elementi inconsci possibili nella coscienza, la completezza spirituale sta nel portare quanti più elementi possibili del divino nella propria umanità, nei propri pensieri, azioni e relazioni. La completezza sta dunque nell’integrare quanta più follia possibile nella propria struttura umana. Cercando di evitare gli immancabili pericoli, come avverte Jung: «Ad una irruzione del mistico, archetipo del Sè, deve corrispondere un aumento di coscienza».

Quindi, per tornare alla domanda iniziale, io che posso fare? Una risposta potrebbe essere: riscoprire la follia divina, per far si che la propria vita diventi affascinante per sé e per gli altri. I tempi lo richiedono. Sembra assurdo, ma proprio il mondo contemporaneo, profondamente ferito dalla mancanza di senso della vita, richiede alla cristianità un’inondazione di follia divina. Già il teologo Karl Ranher, diceva più o meno così: «Nel nuovo millennio il cristianesimo sarà mistico o non sarà».

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