Il sacrificio che ridà vita

Il nuovo romanzo-capolavoro dello scrittore Yan Lianke, intriso di forte carica simbolica, ci immerge nel mondo rurale di una remota provincia del Nord della Cina
Yan Lianke

Da chi ha molto sofferto nella vita possiamo aspettarci sempre qualche messaggio valido e importante. È il caso dello scrittore cinese Yan Lianke, autore pluripremiato (in patria e all’estero), ma anche oggetto di critiche e censure (in patria e non all’estero). Prima però di accostarci con rispetto e interesse alla sua opera, sarà utile qualche cenno sulla biografia e l’attività di romanziere.

Ultimo di quattro figli, Yan nasce nel 1958 a Tianhu, un piccolo villaggio nella provincia dello Henan, da poveri genitori contadini. Durante un’infanzia segnata dalla fame, contribuisce all’andamento familiare con vari lavoretti come tagliare il foraggio e far pascolare i bufali. Grazie ai sacrifici dei suoi riesce a frequentare le scuole medie insieme ai fratelli: cosa rara negli anni Cinquanta e Sessanta in una zona rurale della Cina. Dopo un anno di studi superiori deve tornare al villaggio per la grave malattia del padre e di una delle sorelle.

Fallito l’esame per accedere all’Università, non si dà per vinto e nel 1978 si arruola nell’esercito, dove non solo usufruisce di pasti regolari e farà carriera, ma avrà anche la possibilità di frequentare l’Università per corrispondenza.

L’anno successivo, esordendo col romanzo La storia di Tianma, incontra le prime difficoltà come autore rifiutato dalle case editrici. È del 1984 il matrimonio dal quale avrà un figlio. Nel 2004 lascia definitivamente l’esercito da cui si era già congedato una prima volta nel 1981 per poi riarruolarsi come ufficiale, ed entra a far parte dell’Associazione degli scrittori cinesi, deciso a diventare scrittore professionista. Tre anni dopo è titolare di una cattedra presso l’Università del popolo a Pechino e dal 2016 visiting professor presso l’Università di scienze e tecnologie di Hong Kong.

Autore spesso censurato di romanzi, saggi, copioni per la tv e testi di teoria letteraria, per evitare la censura deve adattarsi a scrivere in maniera meno libera oppure scegliere di pubblicare solo all’estero, dove finirà per essere tradotto in trenta lingue. Quanto al genere letterario, se i primi romanzi rientrano nel realismo alla cinese sia nella scelta dei soggetti, sia nella tecnica descrittiva, i successivi abbracciano un genere più fantastico e favolistico, pur restando legati alle miserie e difficoltà della vita.

Verso gli anni 2000, le tematiche riguardano la storia e la realtà cinesi, di cui Yan mostra il lato oscuro, angosciante e privo di senso. Questo nuovo stile che si potrebbe definire “realismo dello spirito” e vede l’autore incline a «narrare la realtà invisibile ovvero la realtà sotto la maschera», disorienta critica e pubblico della sua patria. Viceversa, all’estero, egli viene annoverato tra i maestri della letteratura mondiale e lodato per il suo coraggio nell’affrontare temi ancora spinosi per la Cina.

Nelle sue opere più mature e corrosive Yan fonde le caratteristiche della letteratura cinese contemporanea con l’iperrealismo, il teatro dell’assurdo e il realismo magico propri di autori occidentali come Gogol’, Dostoevskij, Kafka, Beckett, Márquez e Calvino, creando un nuovo tipo di realismo – il “mitorealismo” – «che, rintracciando nel reale gli aspetti più assurdi e paradossali, si ricollega alla tradizione delle “storie miracolose” dell’età classica, pur non rinunciando a tratteggiare un quadro vivido e incisivo della Cina di oggi» (Lucia Regola). Altro genere in cui Yan eccelle è il sanwen, tipico della tradizione classica cinese: prose brevi in cui, ricreando una lingua poetica e delicata, egli esprime le sue valutazioni su fatti accaduti o descrive persone e ambienti a lui familiari.

L’editrice italiana che ha tradotto il maggior numero di romanzi di Yan Liamke è la milanese Nottetempo, con Il sogno del Villaggio dei Ding, Pensando a mio padre, I quattro libri e Gli anni, i mesi, i giorni. I due romanzi brevi raccolti in quest’ultimo testo, che ribadisce l’appartenenza dello scrittore alla propria terra nativa, sono – a detta della traduttrice Lucia Regola, che ha curato anche l’Introduzione – vividi e affascinanti quadri di vita contadina ambientati sui Monti Balou, catena immaginaria della provincia cinese dello Henan. Con prodigiosa intensità, lingua cristallina e immaginazione rigogliosa, l’autore esplora la durezza delle esistenze dei suoi protagonisti, alla mercé di destini avversi e di una natura potente, inesorabile, a tratti feroce.

Ne emergono racconti intrisi di empatia e di un senso delle cose lirico e al contempo epico: nel primo caso, un vecchio e il suo cane accecato dal sole combattono strenuamente e in totale solitudine per tenere in vita una piantina di granoturco, mentre intorno a quel miracoloso stelo verde la siccità e la carestia accendono il paesaggio di ocra e di un crudele rosso fuoco. Nel secondo, una madre vedova di quattro figli disabili si incaponisce a mutare il destino delle sue creature, fino alle conseguenze estreme.

Entrambi i testi esprimono tutta la carica simbolica dell’atto sacrificale di sé col quale il vecchio e la vedova assicurano, l’uno, la sopravvivenza della piantina, l’altra, la guarigione e il futuro della propria discendenza: sacrificio che diventa segno di rinascita e di speranza per i tribolati abitanti dei rispettivi villaggi.

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