Katerina è una donna solare, decisa e accogliente. Allo stesso tempo non esita ad accompagnarti, con le sue parole, nell’abisso della crudeltà della guerra.

La giornalista Katerina Gordeeva.
Lo abbiamo sperimentato la serata del 5 settembre a Carpi durante l’incontro organizzato e promosso dal Comune di Carpi, con la collaborazione del comitato PacificAzioni. Dalla suggestiva sala delle Vedute del Palazzo dei Pio, è stato presentato il suo libro Oltre la soglia del dolore. 24 voci ucraine e russe, per chi sa ascoltare, pubblicato dalla casa editrice modenese 21Lettere.
L’opera contiene decine di testimonianze di chi ha perso tutto nel conflitto russo-ucraino, raccolte in due anni di incontri con rifugiati e vittime sparse in mezza Europa.
Katerina Gordeeva è una giornalista indipendente di origini russe, insignita nel 2022 del prestigioso Premio Anna Politkoskaja. Ha lavorato in Madrepatria fino al 2012 come reporter televisiva e come corrispondente di guerra dalla Cecenia, dall’Afghanistan e dall’Iraq. Nel 2014, dopo l’annessione russa della Crimea e di parte dei territori orientali dell’Ucraina, si è dimessa dall’emittente e ha lasciato Mosca in segno di protesta. Nel 2020 ha creato il suo canale YouTube, che oggi conta più di un milione d’iscritti.
L’incontro a Carpi è stato scandito dalla lettura di alcuni brani tratti dal libro, che mettevano in luce aspetti differenti di questo conflitto, seguiti da domande poste alla giornalista. Una delle domande è stata: «Cosa ti ha spinta a scrivere questo libro, considerando la complessità di cercare rifugiati disponibili ad essere intervistati e soprattutto intervistati da una giornalista russa?».
Katerina ci tiene a far presente che la guerra era già iniziata nel 2014, anche se non tutti si erano resi conto di ciò che sarebbe successo. Proprio per il suo dissenso verso la politica di Putin, la Gordeeva ha abbandonato quell’anno l’Ucraina per evitare di essere arrestata: in Russia ci sono più di 3.000 prigionieri politici. La giornalista ha raccontato di una sua conoscente che è stata condannata a 3 anni di reclusione dopo aver mostrato un segno di pace in un supermercato.
Putin aveva già in mente l’invasione, anche se immaginava diversamente la resistenza ucraina e non si è fermato nonostante il dolore e la devastazione arrecata.
Davanti a tutto ciò, Gordeeva ha detto che semplicemente non poteva rimanere a guardare senza fare nulla, quindi ha pensato, nonostante tutte le difficoltà logistiche ed emotive, di raccogliere le testimonianze in modo da fissare nel tempo le conseguenze dell’odio e del conflitto. D’altra parte questo è il suo lavoro: scrivere, informare, sensibilizzare.
«Ho capito che la cosa più tremenda in guerra non sono i carrarmati, le bombe, le schegge. La cosa più tremenda è l’uomo»: lo afferma la testimonianza di Tanja, protagonista di un capitolo del libro e poi divenuta amica di Katerina. Nell’intervista Tanja racconta di aver attraversato un posto di blocco presidiato da un militare con occhi spenti, senza vita, e si è resa conto che dietro di lui c’era un bimbo morto per terra e un ragazzo avvolto in un telo bianco, per segnalare la sua resa, anche lui senza vita. Un bimbo accanto a lei in auto chiede “Perché?”. Katerina senza esitazione afferma che non c’è una risposta: ciò che è successo supera la soglia del dolore e della comprensione.
Come possiamo rispondere soprattutto considerando che spesso russi e ucraini appartengono alle stesse famiglie?
Certamente la comunicazione ha giocato un ruolo centrale. Katerina ha posto in evidenza il ruolo centrale della propaganda, sia in Russia sia in Ucraina, nel contribuire all’insorgere ed estendersi della guerra. In Russia i mezzi di comunicazione e informazione sono separati dal resto del mondo, non si possono utilizzare i social come X, Instagram, Facebook, Whatsapp. Esiste solo un social russo, ma che usano solo i russi. È difficile reperire informazioni da altre fonti, quindi Putin riesce a influenzare con facilità il pensiero e le idee nel suo Paese. Fino a poco tempo fa, per i russi questa guerra era veramente percepita come un’operazione speciale, così come presentata dal loro presidente. Solo recentemente parte dell’opinione pubblica russa ha aperto gli occhi.
La maggior parte delle interviste presenti nel libro hanno come protagoniste le donne, gli uomini sono impegnati quasi tutti al fronte. In più capitoli emerge lo straziante tema delle madri che cercano i figli dispersi. «Un mese fa ho risentito una signora che aveva cercato per tanto tempo il figlio e mi aveva raccontato tutte le sue difficoltà nel reperire informazioni dall’esercito. Mi ha detto che lo ha finalmente trovato, morto: era stato ucciso subito dopo l’inizio della guerra, ma a lei non glielo hanno mai comunicato».
Putin ricompensa le famiglie dei militari morti, circa 100 mila euro per soldato, come se si potesse risarcire la morte di un figlio.
Da tantissimo tempo in Russia le madri sono abituate a “vendere” i propri figli all’esercito per la difesa della patria: è un retaggio del passato. Katerina in merito a questo tema ha raccontato anche un’esperienza personale. Lei non è mai stata abbracciata da sua madre, e nemmeno la madre e la nonna sono mai state abbracciate dalle loro madri. L’origine di questa mancanza di espressioni di affetto ha un’origine storica: la nonna negli anni ’30 non aveva quasi vissuto con la madre perché era in un campo di concentramento voluto da Stalin. Non avendo sperimentato la dolcezza di un abbraccio, è risultato normale non tramandarlo alle generazioni successive. E così è successo per tante famiglie. Probabilmente anche questo ha portato ad un distacco emotivo dai figli che rende quasi naturale il pensiero che il proprio figlio maschio sia a disposizione della nazione, per la difesa della patria. Conta più questo che la perdita del figlio.
«A noi la terra altrui non serve. Ancora dobbiamo imparare a vivere bene nella nostra», parole di Irina, madre di un soldato disperso. Nel libro ci sono anche testimonianze di persone convinte di dover difendere i confini della propria nazione anche attraverso la forza. Ce ne sono anche altre che, vedendo la distruzione arrecata dalla guerra, si chiedono se valgono di più i confini di uno stato o le persone e i bambini che vengono uccisi. Per Katerina è pazzesco pensare che qualcuno anteponga la patria alla famiglia, che consideri più importante la difesa dei confini rispetto alla morte dei propri cari. Si chiede amareggiata perché non sia così per tutti.
Il termine “pacifico mondo russo” compare molte volte nel libro. Katerina ci ha spiegato che è un’espressione intraducibile in italiano ma si può intuire tramite un’immagine: un villaggio russo, come tanti in epoca passata in Russia, chiuso all’esterno e in sicurezza, una grande famiglia separata e protetta dal resto del mondo e quindi in pace. È un’espressione inventata da Putin per giustificare la sua operazione speciale. Ma per ora ciò che ha portato è morte e dolore, non certo un mondo pacifico.
Nel libro almeno due persone intervistate hanno reagito male, arrivando anche ad offendere la scrittrice. Una in particolare ha colpevolizzato Katerina, e in genere tutta la categoria dei giornalisti, per questa guerra. Risposta diretta dell’autrice: «È vero siamo corresponsabili». Katerina continua dicendo che probabilmente svolge questo lavoro e porta avanti questa attività, incontrando non poche difficoltà, proprio perché non è riuscita a fare di più, non sono riusciti, lei insieme agli altri giornalisti, a informare correttamente la società russa su ciò a cui puntava Putin, e ora sono in questa situazione.
Non si tratta però di un senso di colpa che deve provare solo la categoria dei giornalisti. Pensiamo alla seconda guerra mondiale e al regime fascista: come è stato possibile che nessuno si sia ribellato nel vedere, vicino Carpi, il transito di migliaia di deportati nel campo di concentramento di Fossoli? La loro reazione avrebbe portato a fermare lo sterminio? Sono domande di grande attualità che chiedono la nostra risposta.