In queste settimane, mentre continua a infuriare la guerra russo-ucraina, il presidente statunitense Trump sta cercando di porre fine ad un conflitto che, nelle sue promesse elettorali, avrebbe risolto in 24 ore, invece degli attuali, lunghi mesi estenuanti di trattative con Mosca e anche con Kiev, a triste dimostrazione che è più facile far scoppiare una guerra che poi farla finire.
Alla Russia, nel frattempo, il presidente Trump ha riconosciuto de facto il ruolo di superpotenza mondiale, mentre all’Ucraina ha fatto chiaramente intendere che gli USA non vogliono impegnarsi più di tanto in questo conflitto, in quanto interessati più allo scacchiere asiatico che non alla vecchia, ancillare Europa, e neppure tanto alla NATO.
Sul finire di questo anno, dalle trattative in corso sono emersi vari piani elaborati dalla Casa Bianca, dapprima in 28 punti, poi concentrati in 19.
Il primo prevedeva delle limitazioni alle forze armate ucraine, per di più rinunciando Kiev formalmente all’ingresso nella NATO, che a sua volta dovrebbe non espandersi più ad est, nonché erano ipotizzate delle intese economiche tra Washington e Mosca.
In un altro punto delicatissimo si riconosceva il controllo russo su Crimea, Donetsk e Luhansk, nonché il cosiddetto “congelamento” della linea del fronte in alcune zone di Kherson e Zaporizhzhia.
Mosca, da parte sua, avrebbe rinunciato ad alcune zone occupate e non avrebbe proseguito nella sua espansione. Tra gli altri punti si prevedeva un rapido ingresso ucraino nella UE, nonché vari impegni economici per la ricostruzione del Paese.
Questo piano di fatto veniva largamente incontro ai desideri di Putin, lasciando insoddisfatti sia l’Ucraina sia la UE, ancora ferma nelle posizioni di vittoria finale contro Mosca e impegnata nel noto, gigantesco piano di riarmo.
Del nuovo piano in 19 punti si sa poco e niente, se non che non vengono posti più limiti alle forze armate ucraine, mentre rimangono in sospeso le spinose questioni territoriali e dei 300 miliardi russi depositati nelle banche UE.
Kiev a sua volta chiede garanzie sui territori che dovrebbero essere monitorati internazionalmente da forze non ancora identificate.
Insomma, tutto sta in alto mare (per così dire), mentre l’UE, diversamente posizionata al suo interno, è tagliata sostanzialmente fuori dai negoziati come anche l’ONU, emarginata da anni nel suo ruolo dai veti incrociati dei membri del suo Consiglio di Sicurezza.
Mesi fa l’Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo ha redatto un rapporto intitolato Per una diplomazia di pace. La minaccia della guerra russo-ucraina e la prospettiva della pace (disponibile on line), che analizza tutte le varie proposte emerse in questi anni e ne propone una sintesi praticabile anche nel possibile rispetto del diritto internazionale, assai ignorato in questi ultimi tempi.
Ne emerge una Road map articolata in varie fasi principali, attraverso cui si prevede dapprima un cessate il fuoco proclamato dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che istituisce eventualmente un Alto Commissario per la Pace e la Sicurezza in Ucraina, nonché la formazione e lo schieramento di una forza di peacekeeping multinazionale che dia garanzie di terzietà a entrambe le parti in causa.
Contemporaneamente, ai colloqui di pace dovrebbero partecipare tutti i soggetti coinvolti e, una volta raggiunti degli accordi, dovrebbe essere convocata una Conferenza sulla pace e la sicurezza in Europa, ispirata allo “spirito di Helsinki” nello scopo di un rinnovato quadro di sicurezza europeo, con un’OSCE «completamente rinnovata, quale istanza di confronto multilaterale, nella quale sono rappresentati tutti i Paesi europei e gli Stati Uniti».
A suo tempo in diverse occasioni la sicurezza europea era stata immaginata in relazione a tutto il continente: ne parlarono in tal senso due personalità diversissime, dapprima De Gaulle, poi lo stesso papa Giovanni XXIII. Sul finire della Guerra Fredda c’era il diffuso concetto di “sicurezza dall’Atlantico agli Urali”.
Infine, nel Rapporto si sottolinea anche l’importanza della smobilitazione e della reintegrazione degli ex-combattenti, della riabilitazione post-conflitto. Al termine di questa guerra (in parte pure civile) si dovranno affrontare infatti anche notevoli problemi sociali, antropologico-culturali e psicologici non trascurabili.
Questa proposta qui sommariamente descritta mirava ad un processo di pace duratura nel quadro di un multilateralismo, che in questi anni è stato sempre meno praticato, dando crescente spazio a posizioni sovraniste/nazionaliste variamente articolate e, in ultima analisi, destinate a confliggere tra di loro stesse. L’Unione Europea sta pagandone il prezzo sia con l’uscita della Gran Bretagna sia con le scelte di alcuni Paesi dell’est, come la Polonia e la Romania.
Anche la stessa NATO, con le posizioni assunte dall’amministrazione Trump di ispirazione isolazionista, sta subendone i contraccolpi, che coinvolgono anche l’UE, dato che 23 dei suoi membri sono partner dell’Alleanza Atlantica e dato lo stretto legame tra la difesa europea (tutta ancora da concretizzare) e quella già operativa della NATO.
Nel frattempo, mentre si parla di piani di pace, continua la corsa al riarmo, con gli USA che coprono i due quinti delle spese militari mondiali e la NATO europea quasi un quinto, mentre la Cina, che sta incrementando le sue, arriva ancora appena ad un terzo di quelle statunitensi e la Russia alla metà di quelle cinesi. Quel che preoccupa è la convinzione che solo attraverso un riarmo diffuso vi saranno condizioni di sicurezza, che in realtà genererà una percezione accresciuta della minaccia e nuove tensioni sia nelle aree di conflitto aperto sia in quelle dove non sono ancora scoppiati scontri armati.
La notizia del mezzo milione di armi portatili (491.426 secondo il Ministero degli interni di Kiev) scomparse dal teatro dei combattimenti in Ucraina è significativa di quanto questa guerra coinvolga anche altri Paesi e produca instabilità diffusa altrove. Il mondo ha bisogno invece di una pace diffusa, come non si stanca di ripetere papa Leone.