Roma, un buddhista tra i Salesiani

Il movimento buddhista Rissho Kosei-kai e l’Università Pontificia Salesiana di Roma hanno stabilito un rapporto di collaborazione che continua da trent’anni, durante i quali cinque studenti sono stati accolti per gli studi teologici e filosofici. Uno di loro ci racconta la sua esperienza
Rissho Kosei-kai
 Il motivo principale che ha spinto la Rissho Kosei-kai a inviare nella Pontificia Università Salesiana di Roma alcuni studenti è la formazione delle persone che si dedicano al dialogo interreligioso, in modo particolare tra il cristianesimo e il buddhismo, nelle sue varie dimensioni come quella teoretica, spirituale, della collaborazione e della vita. Durante lo studio ciascuno di noi è stato ospitato in una delle comunità dei Salesiani presso l’università, dove ho potuto sperimentare il dialogo della vita.

 

Condivisione della vita

 

Quando sono arrivato a Roma nel 2005, avevo pochissima conoscenza sul cristianesimo in generale e, anche se ho potuto iniziare a conoscerlo attraverso la vita in una famiglia del Movimento dei Focolari e nella cittadella di Loppiano, non avevo nessuna idea sulla vita dei religiosi, tranne il fatto che fosse un caso molto speciale che nella loro casa venisse accolto un giovane buddhista laico. Con un poco di timore, ma con ottimismo ho iniziato a partecipare alla vita di una comunità di sessanta Salesiani sacerdoti e coadiutori di diverse nazionalità, insieme con alcuni sacerdoti diocesani che studiano all’università.

 

Tutto ciò che veniva vissuto nella comunità era totalmente nuovo per me: la preghiera del mattino e della sera, la Santa Messa di ogni giorno con la meditazione, le festività, i ritiri e anche le abitudini e la cultura della vita salesiana espresse negli eventi e nei piccoli gesti. Ai religiosi ho domandato tante cose sulla Chiesa, sui Salesiani, sull’aspetto istituzionale e quello dottrinale, e sulle esperienze personali. Molte domande erano semplici, ma le risposte dei Salesiani, date con pazienza e apertura, sono state per me doni preziosi. Soprattutto la considerazione sulla loro vocazione e il loro stile di vita consacrata con i voti di povertà, di castità e di obbedienza con cui si donano totalmente a Dio mi colpivano e mi facevano riflettere sulla mia vita come laico impegnato del buddhismo.

 

Tuttavia, mentre proseguivo la vita comunitaria e gli studi, cominciai a interrogarmi sul mio atteggiamento iniziale che era certamente di apertura, ma poco riflettuto e conteneva un certo relativismo. Infatti, volendo mettere al centro l’armonia tra le persone più di ogni altro aspetto, mettevo tra parentesi le questioni delicate su Dio. Conoscendo le sfide del pluralismo religioso relativistico, che per me non era facile comprendere nell’insieme delle sue complesse questioni, ho capito che dovevo essere più prudente di fronte alla questione della verità e ai comportamenti che ne derivano. Perciò decisi di sospendere la partecipazione a certe attività comunitarie, finche non fossero chiarite le questioni relative, per esempio, alla Messa e alle preghiere, perché, nonostante alcuni aspetti fossero chiari dal punto di vista teologico cattolico, non ero certo se stavo partecipando in fondo con un certo sincretismo relativizzante del cristianesimo e quale atteggiamento fosse giusto sia per il dialogo con la Chiesa sia per me come buddhista. L’attenzione a non confondere due religioni a livello superficiale e a cercare il significato a partire da qualche categoria del buddhismo, mi ha permesso di evitare la tentazione dell’esclusivismo che, come il relativismo, non dialoga con gli altri per la ricerca della verità ma si chiude in se stesso.

 

Costruttori di comunione

 

D’altra parte, anche durante il periodo in cui stavo cercando di superare la tendenza all’esclusivismo, senza cadere nel relativismo, i fratelli Salesiani e diocesani erano sempre vicini a me. Non mi esclusero dalla comunità, anzi si preoccuparono che non mi sentissi solo, a causa della mia religione, cultura, lingua che mi rendevano diverso da loro.

 

Alcuni mi portavano a fare delle passeggiate, altri scherzavano con me e il direttore della comunità mi ascoltava frequentemente dandomi dei suggerimenti. Grazie a questo clima fraterno, anch’io volevo fare del bene a ciascuno di loro, perché erano tutte persone care. Soprattutto negli avvenimenti belli o negativi mi sentivo di più unito a tutti. Così sono diventato un costruttore della comunione della comunità.

 

L’amore che mi hanno dimostrato i Salesiani e i sacerdoti diocesani mi pare che trovi la sua radice nella centralità della preghiera nella vita comunitaria, nella fede in un Dio trinitario, in Gesù Cristo crocifisso e risorto e nel mettere in pratica il Vangelo. Conoscendo la spiritualità salesiana e la vita di Don Bosco e di ciascun confratello, ho capito che proprio per la loro vocazione non potevano lasciare gli altri da soli e cercavano di amarsi gli uni gli altri con cuore aperto, e di amare persino me, un non cristiano. Anzi per me avevano più attenzione e mi trasmettevano il messaggio di Cristo nella vita quotidiana.

 

Sentivo che eravamo proprio amici e che mi amavano concretamente. Mi hanno indicato una via importante per il superamento delle mie difficoltà: senza compromettere le verità delle rispettive religioni e le vocazioni di ciascuno, anzi mettendole al centro di ogni atto e cercando di perfezionarle, possiamo vivere con più carità verso gli altri, in un Noi inclusivo, anche con le persone delle altre religioni.

 

L’esperienza diretta della vita consacrata mi ha fatto crescere personalmente e mi ha aiutato a ritrovare la mia convinzione buddhista, Il nostro movimento vive il dialogo interreligioso dando rilievo all’incontro con l’altra persona per la quale cerchiamo di essere nulla. In questo risuona l’invito di Chiara Lubich a “farci uno”. Vorrei riaffermare che nel dialogo interreligioso aperto verso le altre persone, il Trascendente e la Sua volontà, aiuta a riscoprire e ad arricchire la propria fede.

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