Roma omaggia Stravinskij

Ci vuole un grande direttore per mettere a fuoco due lavori che sembrano di due diversi autori. Perché l’Oedipus (1928), scandito su versi latini intercalati da un narratore (un grande Omero Antonutti) nei suoi temi modali trasporta nell’eternità del mito- metafora. Di qui un declamato insistente – con variazioni che sintetizzano la storia dell’opera, da Scarlatti a Verdi – sull’omofonia del coro e sull’orchestra, che presta i suoi colori ora squillanti ora grigi. Mentre L’uccello (1910) esplode in sonorità sgargianti, sensuali, evocatrici di una fiaba dove l’amore vince la violenza e l’ingiustizia, sotto un cielo esotico che esige ritmi barbarici. Un direttore geniale, si diceva. Zoltan Pes?ko, bacchetta fra le più prestigiose, è l’interprete adatto a lavori che esigono un totale cambio di atmosfere, e quindi di timbri e colori, l’uno dall’altro. Il gesto aperto, fluente suscita la partecipazione reale dell’orchestra, che nel balletto si scatena in morbidezze (il primo clarinetto, l’oboe) e in scosse violente, mentre riveste l’oratorio di un tappeto sonoro grumoso (gli archi gravi). Pes?ko trascina, commuove, con precisione e densa musicalità. Nell’Oedipus l’allestimento ripropone le scene e i costumi di Manzù, grigi e bianchi contro un sole affogato, di suggestiva bellezza, mentre le voci di John Uhlenhopp (Edipo) e Marta Moretto (Giocasta) vibrano di spessore drammatico, in una regia di giusta meditativa lentezza. Nell’Uccello, le scene, i costumi accesi (ricostruiti da Anna e Anatoly Nezhny) fanno brillare la danza di piuma di una grande Irma Nioradze, unita al tenero e appassionato Igor Yebra (il Principe), con l’elegante Gaia Straccamore (Principessa). Così i vari momenti creativi stravinskiani sono stati legati in un’unica serata, e le sue diverse facce unificate nell’anelito spasmodico a superare il limite umano nel mito o nell’esuberanza fantastica del ritmo. Merito del direttore aver saputo trascinare le masse corali orchestrali e i cast in un lavoro di équipe che ha creato uno degli spettacoli più belli all’Opera. RICORDANDO PAPA WOJTYLA Verdi forse pensava al Giobbe biblico quando compose il Requiem? Dialogo serrato, drammatico fra l’umanità e Dio sul perché del dolore e della morte, alternando timore e speranza. Gianluigi Gelmetti, omaggiando il papa scomparso con l’orchestra e il coro dell’Opera nella basilica di Santa Maria degli Angeli il 13 aprile, ne ha dato una simile lettura, per una musica che è preghiera bellissima, quanto mai contemporanea, con finezze suggestive (il tremolo degli archi nell’ Hostias, le entrate di clarinetto e oboe) ed un quartetto di classe: Fiorenza Cedolins, soprano struggente, Daniela Barcellona, commossa; Massimo Giordano, tenore dalla voce brunita e melodiosa, accorata e Orlin Anastassov, basso di nobile gravità. Più che di successo, si deve parlare di respiro dell’anima del pubblico.

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