Roa Bastos dei diseredati

Lo scorso aprile il governo di Asunciòn decretava funerali di stato e tre giorni di lutto nazionale per il paraguayano più illustre del mondo: tardivo omaggio ad Augusto Roa Bastos, uno dei protagonisti del romanzo latinoamericano contemporaneo. Aveva 87 anni, e i suoi problemi fisici si erano aggravati anche in seguito ai maltrattamenti di colei che avrebbe dovuto invece accudirlo, una domestica senza scrupoli. Così, nell’abbandono, ha concluso la sua vita travagliata uno scrittore che si era definito cronista dell’uomo perseguitato e sfruttato, appartenente a un popolo che per secoli ha oscillato senza pausa tra la resistenza e l’oppressione, tra l’infamia dei suoi carnefici e le profezie dei suoi martiri. Per capire ed apprezzare l’opera di Roa Bastos non si può prescindere dalle vicende storiche del Paraguay, eterno stato-cuscinetto dall’incerto futuro, vasto il doppio dell’Italia ma con poco meno di sei milioni di abitanti. Colonizzato nel XVI secolo dagli spagnoli ed evangelizzato dai gesuiti che vi crearono le famose reducciones, conobbe a partire dal 1767, allorché i missionari vennero espulsi, una catena senza fine di conflitti, violenze, soprusi che ridussero la popolazione nella più nera miseria. Massacri e atrocità ebbero luogo durante i 26 anni di dittatura di José Gaspar Rodríguez de Francia, più noto come El Supremo (morto nel 1840). Tre guerre in un secolo: quella del 1870 contro Brasile, Argentina e Uruguay, che quasi annientò il paese (sopravvisse un quarto della sua popolazione, circa 200 mila persone, di cui il 90 per cento di sesso femminile); nel 1932 la guerra del Chaco contro la Bolivia; l’ultima nel 1947, crudele e distruttiva come tutte le guerre civili. Altra eterna dittatura quella di Alfredo Stroessner, dal 1954 all’89. Finché nel 1965 la presa di posizione della chiesa in favore dei diseredati, il ritorno dei gesuiti e lo scontro tra campesinos e potere ridonarono alla gente il diritto alla speranza. Nato nel 1917 ad Asunciòn, il sedicenne Augusto partecipò come infermiere all’ultima parte della guerradel Chaco (1934). Risale agli anni Quaranta il suo esordio come scrittore. Per aver condannato la dittatura militare, nel 1947 fu costretto a riparare in Argentina e successivamente in Francia e Germania, dove insegnò letteratura ispanoamericana. Il dramma dell’esilio si rivelò tuttavia anche scuola di vita, cognizione della morte, della violenza e dell’ingiustizia, che egli avrebbe riversato nella sua produzione: soprattutto romanzi e racconti, ma anche fiabe, testi teatrali e poetici, saggi, sceneggiature cinematografiche. Solo nel 1996, sette anni dopo la caduta del regime di Stroessner, ritornò definitivamente in patria (vi aveva fatto saltuarie comparse dall’89 in poi): ma anche allora, disincantato da una politica ancora lontana, a suo avviso, dalla concezione di democrazia che si ha là dove questa forma di governo si è sviluppata, continuò a sentirsi l’esiliato che non si arrendeva alla sopraffazione dell’uomo sull’uomo e sognava per il suo amato paese un futuro più giusto. Lo sognava, lui che a suo modo era credente, nei termini di una religione della rivoluzione, in cui Cristo appare più vittima da vendicare che il Dio sacrificatosi per amore degli uomini. Chi peraltro si imbatteva nello scrittore, scoprendolo persona riservata, umile ma dignitosa, dalla conversazione amabile, era lontano dal-l’immaginare i suoi trascorsi agitati e la sua tempra di lottatore. Come nessun’altra, la sua voce ha narrato il disfacimento del Paraguay, terra di cui ha tentato nei suoi libri una sintesi dolorosa, forse impossibile, tra la cultura indigena guaranì e quella spagnola: così lo ricorda lo scrittore uruguayano Eduardo Galeano. Più volte candidato al Nobel, ricevendo nel 1989 il Premio Cervantes (una sorta di Nobel per la lingua spagnola), egli ricordò che la letteratura non è un semplice passatempo solitario per chi scrive e per chi legge, ma è anche un modo di influire sulla realtà e di trasformarla con la forza dell’immaginazione. Peccato che Roa Bastos sia ancora poco noto in Italia, dove Feltrinelli ha pubblicato due delle sue opere maggiori: Figlio di uomo del 1959 e Io il Supremo del 1974. Perfetta sintesi di elementi storicosociali e mitico-poetici, il primo titolo ripercorre, dalla fine dell’Ottocento fino al 1936, la complessa vicenda di questa nazione, vista attraverso gli occhi di un militare ribelle che fa ritornoal suo villaggio di origine. Caratterizzato da una scrittura convulsa come il susseguirsi degli eventi, narra di rivolte contadine, guerriglia, persecuzioni dei poveri, prevaricazioni delle compagnie petrolifere: uno scenario di incredibile tristezza e impotenza dominato dal Crocifisso scolpito da un lebbroso, simbolo dell’uomo inchiodato ad un destino dal quale forse, un giorno, riuscirà ad affrancarsi. Considerato il capolavoro dello scrittore, Io il Supremo rievoca invecela figura, del leggendario José Gaspar Rodrìguez de Francia, nel quale in realtà sono adombrati i tiranni di ogni epoca, condotti alla follia dalla loro pretesa di essere padri del popolo ed unici garanti dell’indipendenza della nazione. Il tema del potere sia in forma politica o religiosa o anche in un contesto familiare, tipico di tutte le opere di Roa Bastos, qui compare come potere della parola, detta o scritta. Ad essa infatti ricorre il despota nel tentativo di sottrarsi all’inferno di solitudine nel quale si dibatte: sia quando si confessa a sé stesso, al segretario che è anche la sua anima dannata, o addirittura al proprio cane, sia quando attende ai suoi diari segreti. Ma la parola non fondata sull’amore può solo ritorcersi contro chi l’ha pronunciata, risolvendosi in delirio verbale: è uno dei molteplici significati di questo non facile e sorprendente romanzo, non tanto cronaca esterna quanto riflesso dei fatti nell’intimo di un personaggio che attinge la tragicità di un classico greco.

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