Rivisitando Caravaggio

Articolo

Ricordo fin dal primo impatto con Caravaggio la mia inquietudine. Anche alla sua luce – ed è il caso di dirlo – ho capito negli anni la differenza tra un grande e un genio. Il grande – mettiamo un Rubens, o in altro campo un Petrarca, un Boccaccio – tu lo guardi, lo leggi, vi ritorni anche per tutta la vita, perché ha qualcosa da dirti sempre. Il genio no, ti sequestra e ti sospinge: che sia Caravaggio o Shakespeare è lui che ti guarda e ti legge, sempre e oltre ogni differenza di epoca, più vivo lui di te, più incatturabile dell’aria ed eccedente ogni banale o profonda definizione. Perciò mi giunge gradito questo agile, ma intrigante libretto di Mario Dal Bello sul genio milanese (non nato a Caravaggio), stampato da Effatà editrice, col sottotitolo Percorsi di arte & cinema che di per sé è una sfida, un confronto tra immagini e immagini. Dal Bello ha la pazienza sapiente di non tentare il percorso esaustivo, per quanto breve, il tutto compreso. Al contrario, cerca illuminazioni tematiche e affondi di un percorso critico inteso come rapporto, come incontro in tutta la gamma che va dalla contemplazione al corpo-a-corpo: da cui poi uscire non con la presunzione di aver sufficientemente esplorato un oggetto, sia pure eccezionale, ma con l’umiltà di aver tentato un inesauribile approccio anima ad anima. Infatti il cuore ermeneutico del suo procedere avvicinandosi e soffermandosi senza imprigionarsi in concetti e giudizi definitori, è la scoperta di quel realismo dell’anima che diventa chiave di lettura e insieme invito a proseguire per il lettore-spettatore intelligente, non malato di consumo. È chiaro che Caravaggio è nostro contemporaneo ideale-reale più di tanti moderni di facciata, e non tanto per il suo genio, che resta indiscutibile e impareggiabile, ma perché quel suo genio lui stesso lo ha orientato, per successivi avvicinamenti e scavi, ad esprimere un amore della realtà, la più alta come la più bassa e scandalosa, senza correzioni, attenuazioni o menzognero decoro. Tutti sappiamo che questa marcia imperterrita verso gli esseri umani e le cose più quotidiane e concrete, palpabili e riscontrabili, era anche un viaggio dell’artista in sé stesso, e che nella sua breve vita inquieta e a volte violenta esso gli fruttò due risultati eclatanti: da una parte una inaudita incarnazione dello spirituale nell’umano, una vera inedita attualizzazione del Vangelo, del resto in linea con i migliori auspici pastorali del Concilio di Trento; dall’altra una netta, a volte, ripugnanza da parte dei suoi stessi committenti, che temevano lo scandalo ovvero il troppo umano di quei santi e Madonne e pellegrini colti quasi cinematograficamente – perciò il parallelo, poi, tra il pittore e i film a lui ispirati risulta prezioso – nel loro vissuto, in vita e in morte, tangibile e leggibile nello spazio e nel tempo determinati del loro apparire; compresi il tragico, il drammatico, il non atteggiato, il casuale-fatale e persino il sudore e lo sporco dell’esistenza in atto; senza che ciò, e questo è il punto più panoramico della comprensione di Dal Bello e nostra, diminuisca di un atomo la presenza attiva dello spirituale, del provvidenziale e del divino medesimo, che in quella vicissitudine, in quello smarrimento e in quel dramma umano si incarnano, illuminandoli nel loro buio, scavando luce nella loro tenebra. Il divino si fa domestico, e, diciamo la parola allora inquietante, laico. Caravaggio, lo ripeto, non è un grande, è un genio, e infatti le sue decollazioni e flagellazioni e crocifissioni sono le nostre moderne criminalità e spietatezze più di quanto noi stessi, immersi nella cronaca, riusciamo a vederne la verità dispiegata; sono i suoi occhi ad aprire i nostri illuminandoli, se occorre, anche di tenebra. Dal Bello studia nel progresso delle opere, nel perfezionamento tecnico consustanziato a quello artistico- psicologico, la pietas sempre più dolorante e lacerante e lancinante sulla pena del vivere che i soggetti, proprio nel loro particolare storico, universalmente esprimono: luci trafiggenti come lame e oscurità che sembrano promanare dalla notte oscura del coevo san Giovanni della Croce. Vita e morte vi emergono in precarietà esistenziale (che anticipa di secoli la sensibilità più moderna) e si apparentano, pur con mezzi espressivi e sensibilità ben diversa, alla creaturalità autocosciente di un altro genio, Rembrandt. E ciò è tanto vero che i protagonisti dell’ultimo Caravaggio televisivo- cinematografico (2007) hanno testimoniato, oltre alla connaturalità filmica della pittura, la propria profonda esperienza umana e non solo artistico-culturale, da quella pittura oggi come ieri suggerita, anzi ispirata. Ma tutti, da Alessandrini a Nazzari nel ’41, a Jarman e Martone recentemente, ai registi comunque ispirati formalmente da Caravaggio (Pasolini, Zeffirelli, Gibson ecc.), testimoniano con il fatto stesso del loro perdurante coinvolgimento la perenne qualità sorgiva di un’esperienza artistica somma e senza paragoni possibili.

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