Ritorno alla sconfitta

Può accadere che dopo anni in cui hai vissuto intensamente la tragedia della storia, soffrendo nella carne e nello spirito, per un’improvvisa illuminazione quel passato ritorni e chieda… di essere amato nuovamente, con la coscienza che anche in quel dolore vissuto c’era la radice per quello che oggi siamo. È quanto è avvenuto al poeta Renato Gasparetti, attualmente in California, il quale avverte il desiderio di tornare in quei villaggi che lo hanno visto lacero e sconfitto dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, tra quella gente che ha avuto pietà per la sua esistenza offrendogli un pane e un letto. E lì, tra quei volti sempre belli, pur segnati dal tempo, trova la forza per raccontare la sua lunga storia, epica, struggente, segnata da profonda pietas, sconosciuta a tanti dell’odierna generazione. Ne nasce il romanzo I due villaggi (Editrice Santi Quaranta): affresco sincero e palpitante che si impone per la perfetta fusione di realismo e poesia e che, per essere l’esordio in lingua italiana dell’autore, ci rivela un autentico narratore. La domanda sottintesa nelle pagine del romanzo è una sola: dove l’origine di questo male eterno che è la guerra? La risposta forse è nella riflessione malinconica e incisiva del protagonista: Le guerre non finiscono mai, pensai. Le chiamano prima e seconda guerra punica, prima e seconda guerra mondiale, come se dovesse seguire la terza e la quarta; guerra dei venti, dei cento anni… guerra dei mille anni… ma è sempre la stessa guerra, quella che cominciò con Caino e Abele. Se il bene e il male sono destinati a scontrarsi nella storia e nelle vicende umane, ogni guerra indica il grado di civiltà raggiunto da un popolo; civiltà che matura lentamente nella consapevolezza che gli uomini sono fatti per incontrarsi e non per scontrarsi. Ero partito ragazzo da casa per conquistare il mondo – non per possederlo, ma per imporgli una forma congruente con l’idea innata che avevo di esso – ed ero stato sconfitto: non perché ero stato sconfitto in guerra, ma perché avevo perso la convinzione di quell’idea. Sconfitta che non è resa, ma solo riscoperta di ciò che vale. Il vecchio non sapeva che era stato l’otto settembre a rendere così noi italiani, perché il vincere può fare magnanimi gli uomini, ma la sconfitta li fa umani. Gli dissi che anche il villaggio aveva fatto del bene a noi: avevamo fame e ci aveva dato da mangiare, avevamo freddo e ci aveva presi a casa; eravamo sudici e stracciati e ci aveva voluto bene. I due villaggi, tra i quali si snoda l’esodo dei due soldati italiani, Milan e Raffaele, segnano l’inizio e la fine di un percorso interiore. Costretti a trascinarsi dietro un esercito tedesco inferocito dalla sconfitta, lanciando l’ultimo sguardo a quelle luci fioche che si accendevano tremolando nelle case, trovano ancora la forza di parlare. Era un buon posto; si stava bene, sospirai. Era un buon posto e non lo vedremo più, perché i dannati stanno di casa all’inferno, rintuzzò Raffaele con amarezza.

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