Ritorno al futuro

Lascia spiazzati la varietà che caratterizza l’arte dei “fantastici 5” , e sembra sfuggente la motivazione che ha raggruppato questi artisti sotto un’unica etichetta, anche se per pochi anni. Non sono in comune né i contenuti, né il linguaggio, né lo stile (o meglio, gli stili, visto l’eclettismo che caratterizza l’opera di questi artisti). Le uniche convergenze che balzano all’occhio sembrano essere la cittadinanza italiana e la determinazione nell’operare congiuntamente un “ritorno alla pittura”, dando una sterzata al corso della storia che negli anni Settanta aveva abbandonato tela, pennello e scalpello per adottare medium fino ad allora “extra artistici”, e via via sempre più “poveri” e smaterializzati (Arte Minimale, Arte povera, Arte Concettuale). “Transavanguardia”: il titolo che campeggia sulla parete risveglia in me il segreto pregiudizio riservato a chi conquista il successo in fretta. Il manipolo di artisti tenuto a battesimo da Achille Bonito Oliva nel 1979 ottiene un’accoglienza internazionale più rapidamente di ogni precedente artista italiano, compresi i futuristi e Giorgio De Chirico. Le lunghe sale del Castello di Rivoli sono scandite dalle opere che come grani del rosario riempiono e costruiscono lo spazio dedicato a cinque misteri, cinque artisti. Il primo è Sandro Chia, il più anziano del gruppo, ma anche il più sfacciato in questo “ritorno alla pittura” che nella sua opera si fa quasi scandaloso: grande lavorio di pennello che sa- tura le tele di tocco e di colore; figure gonfie, tornite, monumentali; la retorica e l’ampollosità dei suoi quadri sarebbe quasi soffocante se non andasse a braccetto con soggetti di tono leggero e disimpegnato. Titanici anti-eroi che spesso e volentieri ci danno le spalle nell’atto di prodigarsi in qualche azione bassa, buffa, oppure ragazzi-semidei in posture classicheggianti che superano la soglia dell’eloquenza per cadere con coscienza nell’ironia. Presente anche una scultura dell’artista, una figura in ginocchio e con la testa appoggiata o stretta fra le mani, gli occhi al cielo: paura e sospensione riempiono la narrazione che comunque non svanisce, ma da leggera si fa tremendamente seria. La sventagliata di opere di Francesco Clemente ben documenta il suo eclettismo: disegni, acquerelli, gessetti, dipinti… Autoritratti e “no” testimoniano comunque un’autoreferenzialità del profondo che senza tabù esplora ogni parte del corpo e della mente. Influssi indù e teosofici, derivanti da viaggi e soggiorni dell’artista, convivono in un immaginario dove non esiste la frattura ma solo la sfumatura fra sensoriale, emotivo, cognitivo, spirituale. Piccole confessioni psicoanalitiche di un’umanità che non conosce il super-io e che si muove in un universo dove le energie affettive fluiscono incondizionate. Abilissimo nell’addomesticare la “cattiva pittura”, Enzo Cucchi ci restituisce soggetti al massimo della stilizzazione, quasi ridotti a cifre bidimensionali. Oppure quadri brulicanti di pittura spessa, fatta apposta per quel sentimento di dolore e di fine che trasuda dalle grandi tele: pianoforti in fiamme, teschi raccolti in lande desolate, una barca alla deriva in un mare che per Cucchi è sempre fatto di fuoco. Viaggi nel tempo e nel sogno, al recupero del surreale e del metafisico, di un contenitore che, seppure manierato, possa trattenere la dispersione e la disperazione del presente. Anche l’opera di Mimmo Paladino ci si presenta con due facce: un’arte delle origini fatta di simboli arcaici, segni, cifre visive. Un alfabeto di pittogrammi chiusi e inaccessibili viene riversato su tavoli rituali di cui solo l’officiante (l’artista) conosce il codice propiziatorio. La seconda faccia dell’opera ne è l’esatta controparte: “Silenziosi” (dal titolo) ampi monocromi in cui l’intricato labirinto di segni lascia il posto ad un solo elemento plastico: una maschera di argilla che emana a volte un soffio chiaro, a volte dardi plastici di luce; una maschera che, posta in alto alla grande tela, rimanda immediatamente al divino lontano, inaccessibile, inafferrabile, un divino che si può cogliere solo per via indiretta. Infine Nicola De Maria, il più “astratto” del gruppo, sembra raccogliere l’eredità di Klee e comporre un nuovo paradiso spirituale dove macchie di colori sono fiori che dialogano con la luna, che diventano stelle, lettere, note di colore. “Musica occhi” sono le scritte che compaiono su una tela lunga e stretta posta in cima ad una parete delle alte sale espositive. Forse non a caso per scorgerla bisogna spostare il punto di vista abituale, come per questi quadri che non sono solo da vedere ma anche da ascoltare, sono musica, poesia. Lo stesso De Maria si riconosce come “uno che scrive poesie con le dita piene di colori”. Cinque individualità ben stagliate; in comune un ritorno al passato ma con la sensibilità di un presente fatto di poesia, domande, paure che si velano e si svelano… In fondo “transavanguardia” significa proprio questo: non è il rifiuto dell’avanguardia e della voglia di novità, ma la coscienza di un passato e di una tradizione che irrimediabilmente… è presente; non si coglie un ripiegamento o una decadenza alla “fin de siècle”, ma il canto e il tormento di voci che nel presente e nonostante il presente vogliono esserci. Daniele Fraccaro Transavanguardia, Rivoli, Castello di Rivoli. Fino al 23/3 (catalogo Skira).

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