Ritorno a Mostar

Sono qui, col naso all’aria, sotto l’arco ardito del ponte di Mostar; proprio dove giorni fa delegazioni internazionali, autorità, giornalisti, gente comune, curiosi ed ambulanti, s’ammassavano ad applaudire l’opera tutta tecnologica della ricostruzione perfetta del ponte bombardato 11 anni fa. Il luogo, il silenzio, la luce fresca del mattino, la bellezza del fiume Neretva… tutto aiuta a tentar finalmente di riannodare la trama di questo viaggio attraverso i Balcani alla ricerca di noi. Sì, è tutta nostra – europea – la storia dei Balcani. Siamo noi la cristianità lacerata e mai ricomposta. Siamo noi i crociati contro, e sempre noi gli ammaliati delle geometrie dell’Islam. Siamo noi gli imperi in rovina e gli orfani della contrapposizione ideologica. Siamo noi l’Occidente che ha paura, che presidia frontiere e costruisce muri… Lungo le strade dei 3000 chilometri percorsi ci salutava il ritornello consolatorio di bandiere blu dalle 12 stelle, che ad ogni angolo timbra il finanziamento dei cantieri della ricostruzione, ponte compreso. Ma dov’era l’Europa quando nel ’93 le milizie croate bombardavano il ponte? Bombardare un ponte… Non un ponte strategico per il passaggio di armati o un collegamento obbligato di grandi arterie di comunicazione. No, sul ponte di Mostar si passava e si passa a piedi, tutt’al più a cavallo (come a Rialto). Ci si va per incontrarsi, per conversare… Esso, un po’ come il fratello ponte di Visegrad sul fiume Drina, cantato da Ivo Andric, stava lì da secoli, simbolo in pietra bianca, a far sintesi di arte e di artigianato, di statica e di matematica, a raffigurare l’eterno che non passa, sospeso sull’incessante scorrere delle acque e delle generazioni. Perché bombardare un ponte così? Era il tempo della guerra civile, diceva giorni fa un ragazzo, parlando di allora. Ci colpisce l’ossimoro. Una guerra assolutamente incivile si è accanita qui contro la vita stessa, l’esistere di persone e di famiglie, contro la convivenza fatta di villaggi e di mercati, crivellando la vita culturale pulsante nelle biblioteche, nelle redazioni, nelle moschee e nelle chiese, nei ponti-simbolo, ossia fin giù, dentro, nella coscienza. Come alla grande acciaieria, in piena campagna, a Omarska sobborgo di Prijedor, ancora in funzione e oggetto di appetiti nemmeno celati di imprese occidentali. Siamo lì, nella piccola processione silenziosa che commemora il 6 agosto del 1992, quando lì venne scoperta e stoppata la vergogna assoluta di un campo di concentramento. Uno dei tanti. Uomini e donne avanti a noi portano gladioli e piccoli bouquet. Ne depongono uno alla base di un palo, all’ingresso di quella che era la stanza degli interrogatori: Qui stavamo ammassati in 500…. Un altro al pavimento di una stanza: Qui le donne… , Qui ci hanno fatto ripulire il sangue per una notte intera…. Non capiamo quasi nulla dei racconti, delle frasi di intesa. Capiamo solo lo strazio e quelle mani che coprono e ricoprono i volti dondolanti, ritmicamente, in segno di lutto. Un gesto antico, visto anche nei filmati recuperati dal regista Gianikian, testimonianza della strage degli armeni. Un secolo di lutti: e qui è tutto così vivo, così presente… Non è la ricostruzione del ponte di Mostar l’opera perfetta vista nei Balcani. È un’altra ricostruzione, lenta, ancora quasi impercettibile. La ricostruzione dentro. Ci voleva tanto silenzio e tanto rispetto per sentirla, perché ci vuol coraggio ad elaborare un conflitto, a dare un nome a ciò di cui non si vorrebbe mai più parlare e sentir parlare. L’abbiamo intravista lì, al campo di Omarska. Più spesso ce l’hanno sussurrata le donne, quando osavano parlar di sé, del dolore subito e del dolore attraversato. È qui il cielo blu, pieno di stelle. Il cielo d’Europa.

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