Riparte la città

Scarsa responsabilità e voglia di salvarsi da soli. Ma anche impegno motivato e appassionata dedizione. Soprattutto da donne, anziani e immigrati imprenditori.
Riparte la città

L’aeroporto di Fiumicino potrebbe costituire il simbolo negativo del nostro Paese in questa torrida estate. Lo scalo internazionale di una delle capitali mondiali del turismo risulta agli ultimi posti nella graduatoria europea in fatto di puntualità nelle partenze dei voli.

 

Già in giugno Eurocontrol aveva assegnato al Leonardo da Vinci la maglia nera con una media di 21 minuti nel ritardo dei decolli. In luglio e in agosto l’aeroporto è stato capace di peggiorare la situazione non solo in fatto di mancata puntualità delle partenze ma anche di ritardata riconsegna (quando non di smarrimento) dei bagagli. Ne sa qualcosa anche il sindaco di Roma, Alemanno, che, senza sostare nella sala climatizzata riservata alle personalità, ha atteso per oltre un’ora la valigia in mezzo a passeggeri delusi e arrabbiati.

Motivo? Mancano controlli – viene precisato – sul rispetto delle norme e mancano sanzioni adeguate a chi, compagnie aeree in testa, non agisce correttamente. E questo, come si è costatato con facilità in qualità di cittadini e di turisti, si ripete in molti servizi in tante città italiane.

Ma restando a Roma – è pur sempre la capitale del Paese –, risulta emblematico il caso di molti tassisti in canottiera, bermuda e sandali. C’è stato bisogno, a metà luglio, di un atto del consiglio comunale (in assenza di iniziative delle organizzazioni di categoria) per sollecitare gli autisti dei taxi ad adeguarsi ad un «abbigliamento consono alla logica della decenza», ha precisato il Campidoglio, ricordando che svolgono «un servizio pubblico».

Treni in ritardo e carrozze sporche, come tanti altri servizi pubblici sempre più sotto gli standard minimi. Città d’arte, località montane e marittime spesso oltraggiate da un’incuria crescente che finisce per giustificare il disimpegno di chi tira i remi in barca.

Difettano responsabilità e controlli, ma i segnali di quest’estate indicano molto di più: sta venendo meno il senso di appartenenza alla comunità, si vanno sfilacciando i rapporti sociali, si cerca di “salvarsi” da soli di fronte alla crisi e al grigiore che avanza in città.

E per di più ci stiamo abituando all’approssimazione sul lavoro, alla pochezza di stile e di tatto, alla trasandatezza di approcci e di ambienti.

 

Gente acquattata

 

Una delle caratteristiche dell’Italia era la capacità di adattarsi a situazioni nuove e impreviste. È ciò che ha consentito al Paese di superare stagioni difficili, di far emergere creatività e spirito d’iniziativa, di progredire contro ogni previsione e di sapersi rilanciare nel contesto internazionale.

Ma adattarsi non sembra più sufficiente in questa fase cruciale della crisi, sottolineano gli analisti sociali. C’è bisogno di più. Ed invece in questi ultimi mesi la maggioranza degli italiani, riscontrano gli osservatori, non solo si è adattata ma addirittura s’è acquattata in totale posizione difensiva, intenta solo a tutelare il proprio interesse immediato. I 73 eritrei morti affogati per mancanza di soccorsi sembrano non riguardare nessuno. L’estate, come detto, lo sta confermando.

Ne risulta uno spirito tutt’altro che pronto all’innovazione, all’apertura e ancor meno alla trasformazione. Di riforme, come costatate voi stessi, parlano solo i politici. Tanti cittadini non sembrano crederci più.

Lo ha dovuto rilevare anche il politologo Angelo Panebianco, che, pur convinto sostenitore delle riforme, ha ammesso sul Corriere della Sera che le riforme in questo Paese non sono attese dalla maggioranza della gente, perché i cambiamenti sono adesso temuti per gli squilibri sociali e territoriali che potrebbero generare.

 

Avanguardie

 

Come ne veniamo fuori? Prospettive non emergono, ricette risolutive ancor meno, nonostante il dibattito permanente di questi mesi.

Per questo ha destato il nostro interesse il tentativo del Censis, uno dei principali centri di ricerca sociale, di guardare oltre le categorie sociali classiche (imprenditori, sindacati, associazioni di categoria, ordini professionali), convinto – come ci ha spiegato la ricercatrice Elisa Manna – «di puntare lo sguardo sulle avanguardie, sui nuclei, sulle minoranze vitali che crescono all’interno delle categorie e dei territori».

Si intravede così un’Italia del “d.a.i.”, ovvero che riceve la spinta verso la trasformazione da tre soggetti: donne, anziani e immigrati imprenditori.

Questi ultimi sono titolari di 243 mila imprese individuali e il loro numero è cresciuto anche nella prima metà di questo anno, proprio quando le piccole imprese hanno risentito maggiormente della crisi. Gli extracomunitari si sono messi in proprio, spesso con un punto vendita del piccolo dettaglio, dopo anni di lavoro dipendente. Il loro apporto alla ricchezza dell’Italia è ormai nell’ordine del 10 per cento, ma ancor più rilevante è il contributo in termini di vitalità e di fiducia nel futuro del Paese. Una scommessa che – Superenalotto a parte – tanti italiani non si sentono di fare.

Degli anziani tutti dicono un gran bene, ma costituiscono ancora una ricchezza scarsamente valorizzata. E, come ben sappiamo, aumentano di numero: le persone con almeno 65 anni sono ormai un quarto della popolazione e cresce in loro la consapevolezza di aver ancora molto da dare.

Eccoli presentissimi nell’ambito del volontariato, eccoli motivati e con la voglia di vivere una cittadinanza attiva. Ad incominciare dai cosiddetti anziani giovani (60-65 anni), è diffusa la propensione a mettere al servizio della collettività le capacità professionali e culturali accumulate, il patrimonio di relazioni umane, il bagaglio di esperienze. Rileva il Censis: «È la riscoperta dell’esperienza come valore aggiunto per le altre generazioni, per le potenzialità di sviluppo dell’intera società, soprattutto in questo periodo di grandi e molteplici paure».

 

Competenza e intuito

 

Ogni tre medici, uno è donna. Eppure solo una donna medico su dieci occupa un posto di primario. Al tribunale amministrativo regionale i magistrati sono 267, di cui 67 donne: nessuna ricopre funzioni direttive.

Niente di nuovo, lo sappiamo. Ma la crisi economica sta rendendo loro giustizia. I dati delle Camere di commercio indicano a fine 2008 una miglior tenuta delle imprese (un milione e 430 mila) guidate da donne. Anche quelle quotate in borsa, se sono presenti donne nel consiglio d’amministrazione, hanno ottenuto risultati migliori rispetto alle altre. Altro segnale: al Sud le donne imprenditrici sono il 25 per cento del totale, molto più che al Centro-Nord, quasi a sottolineare che l’intraprendenza femminile è tanto più forte quanto più marcate sono le difficoltà locali.

Emerge dunque nel mondo del lavoro (e non solo) un efficace binomio di competenza e intuizione che le donne sanno far valere, anche perché capaci, secondo lo studio del Censis, «di mettere al centro del proprio lavoro le persone e non solo il profitto, rendendole più utili oltre che più etiche».

Donne, anziani e immigrati imprenditori non costituiscono naturalmente la risposta alla crisi e il motore dell’auspicato rilancio del Paese, ma sono viste come risorse preziose per contribuire in modo innovativo a rimotivare il territorio e la città e a rimettere in moto lo sviluppo del sistema sociale ed economico.

Gli operai dell’Innse, in fin dei conti, restano marginali rispetto ai grandi sistemi produttivi, ma hanno aperto uno scenario inedito fondato sul senso del bene comune. Essi hanno offerto con la loro protesta in cima ad una gru, mettendo a repentaglio sé stessi e non altri, una lezione – come sottolineiamo in un editoriale – di dedizione al lavoro, di responsabilità sociale, di sudata inventiva. L’Innse di Milano può allora essere adottata come simbolo dell’Italia che crede in sé stessa e in quello che fa con passione e creatività. In fin dei conti, adesso il Paese si rilancia a partire dal proprio lavoro e dalla propria città.

 

De Rita

Finito il tempo dell’adattamento

 

Davvero finita la stagione dell’italico adattamento?

«Non basta più sperare anche nei prossimi mesi di difendersi dalla crisi arrangiandosi con la casa di proprietà (per l’85 per cento degli italiani), il risparmio accumulato dalla famiglia, il secondo lavoro, un po’ di sommerso. Bisogna uscire dall’adattamento», replica il sociologo Giuseppe De Rita, segretario del Censis.

 

Gli italiani lo hanno capito?

«La maggioranza non reagisce più, non sembra avere grandi ambizioni. Preferisce il “parva sed apta mihi” (motto latino: piccola ma adatta a me, ndr), manifestando l’incapacità di tanti ad essere intraprendenti».

 

Uscire dall’adattamento. La politica può dare una mano?

«La politica adesso è legata a due fattori: il bisogno di consenso, tanto da non dover più orientare la società ma solo rassomigliarle; e la sua attuale incapacità di stare nella società, impegnata com’è nella ricerca di un rinnovamento interno, magari attraverso la nuova legge elettorale, il partito federale, le primarie. Per di più, se gli italiani non vogliono mutamenti, la politica incomincia a chiedersi: “Cosa ci sto a fare?”».

 

Dove vede il cambiamento?

«Stiamo registrando una rinascita dei valori sociali dopo 50 anni di valori individualistici. Bisogna vedere se questa innovazione culturale riuscirà a decollare. Ritengo, comunque, che il cambiamento verrà non da grandi riforme ma da politiche di settore. Determinante resta la presenza di minoranze vitali che si aggregano e sanno contribuire a trasformare il proprio contesto».

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