Rinascimento europeo: ripensare sovranità e confini

Come partecipare alla conferenza sul futuro dell’Europa? Come prendersi cura del destino dell’umanità?
Ursula von der Leyen (AP Photo/Luis Vieira, Pool)

Verso un nuovo Rinascimento Europeo. È questa la direzione che la Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha voluto indicare lo scorso 6 maggio nel discorso sullo Stato dell’Unione pronunciato a Fiesole, presso l’Istituto Europeo, affermando come l’Europa abbia sempre avuto, nel corso della storia, le risorse e la capacità di rialzarsi e ripartire, a fronte di crisi profonde.

E ha fatto riferimento alla tema della “cura” (I care), citando don Milani e Barbiana, e trasferendo questo concetto dalla sfera privata e famigliare, dove siamo abituati a collocarlo, ad una sfera politico-istituzionale: un impegno delle Istituzioni Europee, ma anche dei cittadini europei, ad avere sollecitudine e preoccupazione per il destino dell’umanità, che sconvolta e ancora sofferente, ma con spiragli di luce, sta attraversando questa crisi e trasformazione epocale.

Proprio alla luce dello sconvolgimento in cui siamo immersi mani e piedi e ancora non sappiamo esattamente dove andremo, è importante provare a leggere, con un esercizio di visione, le zone d’ombra e le opportunità da cogliere, di cui possiamo fare tesoro, anche nel quadro dell’Unione Europea. Si è aperta da poco la conferenza sul futuro dell’Europa: una serie di dibattiti e discussioni avviati su iniziativa dei cittadini che consentiranno a chiunque in Europa di condividere le proprie idee e contribuire a plasmare un futuro comune.

Invece di accomodarsi, l’invito urgente è, allora, di scomodarsi e provare a chiederci come cittadini (e come studiosi) se sia possibile rileggere alcuni concetti chiave che hanno guidato il processo di integrazione europea per fare dei passi verso un possibile Rinascimento, cogliendo quei germogli che già ci sono.

La questione della sovranità

Sappiamo bene come la storia della costruzione europea sia andata avanti per cessione progressiva di quote di sovranità da parte degli Stati nazionali verso un’entità sovranazionale: gli Stati hanno “rinunciato” all’esercizio di alcune competenze trasferendole alle Istituzioni europee.

La nostra Costituzione fa riferimento alla limitazione di sovranità all’art. 11, dove si legge che «L’Italia consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni». E non a caso la limitazione di sovranità è collegata al ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.

Altiero Spinelli, uno degli autori del famoso Manifesto di Ventotene del 1944 “Per un’Europa libera e unita”,  insieme a Ernesto Rossi, Eugenio Colorni e Ursula Hirschmann, guardava con estrema attenzione alla questione della sovranità scrivendo: «La sovranità assoluta degli stati nazionali ha portato alla volontà di dominio di ciascuno di essi, poiché ciascuno si sente minacciato dalla potenza degli altri e considera suo «spazio vitale» territori sempre più vasti (…) Basta che una nazione faccia un passo in avanti verso un più accentuato totalitarismo, perché sia seguita dalle altre trascinate nello stesso solco dalla volontà di sopravvivere».

La cessione progressiva di quote di sovranità è stata, quindi, fondamentale anche nel processo di integrazione europea: ha portato a conquiste che non sarebbero state, altrimenti, immaginabili.  Ha consentito, sulle ceneri di due guerre, di realizzare un’unione politica, ha portato al trasferimento di competenze verso l’Unione, all’utilizzo di un metodo comunitario, alla creazione di un Parlamento europeo e di una cittadinanza europea. Non ancora alla creazione di una Costituzione per l’Europa, il cuore pulsante di una comunità politica, che esprime l’identità, la storia e i valori di un popolo.

Allora oggi, a fronte della trasformazione in cui anche le istituzioni europee si trovano immerse, è possibile provare a rileggere il concetto di sovranità, per fare dei passi che aprano la strada verso un Rinascimento europeo? In che direzione?

Innanzitutto – e la pandemia ce lo ha raccontato in maniera violenta, toccando così da vicino le nostre vite – vi sono questioni di scala globale a cui non è più possibile rispondere singolarmente, come Stati. Non ci si può salvare da soli, nemmeno a livello di quel sistema così complesso delle relazioni tra Stati.

Molte volte abbiamo sentito i nostri leader politici, da una parte e dall’altra, affermare che se l’Europa non fosse stata in grado di cambiare rotta nella gestione dell’emergenza o di procurare e distribuire i vaccini, allora l’Italia avrebbe fatto da sola. E così via, nella scia di una logica egemonica ancora troppo forte.

Perché, invece, non provare a fare delle proposte a livello europeo che permettano un coordinamento più rapido ed efficiente, ad esempio, nella gestione di crisi sanitarie? La sanità è una competenza in mano agli Stati membri. Questo significa che a livello europeo, sediamo nel Consiglio Europeo, composto da capi di Stato e di governo, con tutta la difficoltà che un metodo intergovernativo comporta nel processo decisionale. Come ricordava David Sassoli, al discorso inaugurale della Conferenza sul futuro dell’Europa, aggiornare i Trattati non deve essere un tabù.

In questo contesto, sarebbe allora importante iniziare a slegare la questione della cessione di sovranità da una perdita di potere da parte dello Stato-Nazione nell’esercizio delle proprie competenze e costruire una narrativa nuova (che porti anche ad una maggiore capacità operativa) in cui dimensione politica interna allo Stato e dimensione politica europea e internazionale (esterna allo Stato) non viaggino su due binari separati, ma siano situate su un continuum.

La perdita di sovranità andrebbe riletta non come limitazione ma come condivisione di sovranità e quindi anche condivisione politica, mettendo l’accento sulla parola condivisione, che nei contesti multilaterali non è quasi mai parola gradita, poiché significa anche allenarsi nella cooperazione, sforzarsi di trovare obiettivi comuni e lavorare insieme.

Comunità, confini: verso un rinascimento ecologico

Nell’età globale, e a maggior ragione nello scenario post-pandemia, abbiamo di fronte processi globali di unificazione e omologazione da un lato, ma anche processi locali di frammentazione, divisione, differenziazione dall’altro. Come sottolinea bene Elena Pulcini nel suo libro La cura del mondo (Bollati Boringhieri 2009), da un lato il “globale” si afferma in tutte le sfere dell’esistenza. Dall’altro lato si assiste al configurarsi di un “mondo in frammenti”: cioè un mondo sempre più percorso da divisioni e differenze, dove emerge la tendenza alla riterritorializzatine, all’appartenenza e al confinamento. E quindi, accanto al bisogno di comunità, emerge anche la riappropriazione del confine, spesso in una logica oppositiva.

In questo senso, anche la diffusione del virus ha fortemente accentuato la necessità di controllare i flussi di persone in entrata e uscita da un Paese e riportato attenzione sulla questione dei confini, su più fronti. Addirittura, i confini tra un comune e l’altro sono diventati importanti e i limiti alla libertà di circolazione, dovuti all’emergenza sanitaria, non ci hanno certamente fatto sentire a nostro agio.

Allora, la trasformazione che stiamo vivendo e che è già in atto non ci dà forse anche l’opportunità di rimettere mano all’idea di confine, che è tornata così prepotentemente nelle nostre vite, e, quindi, anche al bisogno di appartenenza e di comunità, costruendo letture nuove?

Sappiamo infatti che proprio sul confine nasce l’inaspettato, la sorpresa, l’innovazione. È la diversità, non l’omogeneità che ci regala ricchezza. La mescolanza, non la purezza. È il plurale, il molteplice.

Ce lo ricorda bene Elena Granata, docente di urbanistica, che nel suo libro Biodiversity, Città aperte, creative e sostenibili, che cambiano il mondo (Giunti 2015) scrive che differenza «genera differenza, incessante evoluzione che nasce da continue discontinuità e rotture». Lo vediamo nelle nostre città, nei nostri quartieri.

Addirittura fra i palazzi delle nostre vie. Le città senza cesure nette, di vario livello, ad esempio tra urbanizzazione e aree verdi, sono quelle vincenti. Città dove l’amministrazione esce dagli uffici e incontra i cittadini e viceversa, dove le idee circolano, in un processo di dialogo che rompe i confini burocratici e talvolta anche istituzionali e, rimescolando le carte con la vita reale, avvia processi nuovi.

Ma lo vediamo anche allargando lo sguardo: pensiamo ai confini nazionali, a quelli di ogni Stato membro dell’Unione, allo spazio Schengen, e ai confini esterni dell’Europa, da cui poter guardare i vicini in una logica di maggiore reciprocità. Al Mediterraneo con soluzione di continuità, e non come opposizione di sponde. E ai confini più lontani, di cui non è possibile disinteressarsi, se vogliamo avere uno sguardo che abbraccia e non procede per “frammenti” di mondo. Come non ricordare, in questi giorni, Gaza e proprio quei confini?

Possiamo e, forse, dobbiamo allora osare: chiederci se, immaginando il cittadino europeo che cammina verso un rinascimento post-pandemia, non sia possibile vederlo capace di scomodarsi e di stare sul confine, apprezzandolo come luogo di osservazione e azione privilegiato. Luogo di mescolanza, pluralità e apertura. Luogo di rottura, ma anche ponte di pace.

Un cittadino capace di cogliere la complessità delle questioni, che sono globali e locali allo stesso tempo. Di avere cura della propria comunità, ma anche di quella dell’altro. Di avere cura del proprio giardino, ma anche di quello del vicino e di preoccuparsi del pianeta. Di guardare la realtà come complessa, interconnessa, senza semplificazione, e avere gli strumenti per farlo.

Allora sì che vi è estrema consonanza con quel pensiero ecologico integrale che ci è tanto caro e che non riguarda solo l’ambiente: un cittadino capace di ecologia è capace di relazionarsi con il mondo che lo circonda e di leggere i nessi fra i fenomeni. L’uomo europeo del Rinascimento che ci aspetta, direbbe Edgard Morin, è ecologico, ha una testa pensante che mette insieme i pezzi e non vede il mondo settorialmente, ma nella sua interezza, complessità e bellezza.

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