Riformare i partiti, prima della legge elettorale

Esiste una crisi di rappresentanza delle formazioni politiche alla radice del continuo dibattere su sistema maggioritario e proporzionale
ETTORE FERRARI / ANSA / I51

Nel nostro Paese cambiare la legge elettorale sta diventando un’abitudine, di cui certo non possiamo andare fieri al cospetto delle altre principali democrazie europee.

In un quarto di secolo, infatti, ne abbiamo cambiate ben quattro, cercando di conciliare le due esigenze alle quali tali leggi devono rispondere: fotografare nel modo più proporzionale possibile i rapporti di forza tra i partiti politici (rappresentatività); creare le condizioni politiche che permettano la formazione di maggioranze parlamentari stabili e coese (governabilità).

Tali frequenti modifiche trovano spiegazione nel fatto che, in assenza di riforme costituzionali idonee “a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo” (così l’ordine del giorno Perassi approvato in Assemblea costituente), sulla legge elettorale si è riversato l’onere di trasformare il nostro sistema politico da multipolare a bipolare e, di conseguenza, il nostro sistema parlamentare da compromissorio (in cui le maggioranze si formano dopo il voto per accordo di coalizione tra partiti) a maggioritario (in cui le coalizioni tra partiti si formano prima del voto e sono gli elettori a scegliere quale di esse deve governare).

Con questo obiettivo, già nel 1993, per effetto del referendum manipolativo sull’allora legge proporzionale, siamo passati ad un sistema prevalentemente maggioritario (c.d. Mattarellum), con tre quarti dei seggi attribuiti in altrettanti collegi uninominali ed il restante quarto con formula proporzionale, per non far scomparire del tutto le forze politiche minori.

Nel 2005 tale sistema è stato abbandonato a favore di uno proporzionale con premio di maggioranza (nazionale alla Camera, regionale al Senato) da aggiudicare alla lista o coalizione di liste più votata (c.d. legge Calderoli). Tale legge è stata però dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale (sentenza n. 1/2014) perché l’assenza di una percentuale minima di voti per l’aggiudicazione di tale premio poteva determinare una sovra-rappresentazione eccessiva. Il che era esattamente quanto accaduto nelle elezioni politiche del 2013 quando la coalizione più votata (quella di centro sinistra) ottenne alla Camera il 54% dei seggi (340) con appena il 29,5% dei voti.

Per rimediare a tale censura fu approvata, nel 2015,  una nuova legge (c.d. Italicum) che prevedeva l’assegnazione del premio di maggioranza nella sola Camera alla lista (e non più alle coalizioni di liste) che avesse ottenuto al primo turno almeno il 40% dei voti oppure, in caso contrario, che avesse vinto il secondo turno di ballottaggio, aperto alle due liste più votate.

Scopo di tale legge era assegnare il premio di maggioranza pur in presenza di un sistema politico trasformatosi da bipolare a tripolare a seguito del successo elettorale del MoVimento 5 Stelle. Anche tale legge però è stata ritenuta incostituzionale (sentenza n. 35/2017) – e quindi non è mai stata applicata – perché non evitava il rischio, già segnalato, di aggiudicare il 54% dei seggi ad una lista che al primo turno avesse ottenuto una percentuale di molto inferiore al 40%.

Infine, nel 2017 si è approvata la legge elettorale vigente (c.d. Rosato) che, abbandonata la strada del premio di maggioranza per sapere “la sera delle elezioni” chi le avesse vinte, prevede un sistema misto: 5/8 dei seggi sono aggiudicati con formula proporzionale, i restanti 3/8 con il maggioritario in collegi uninominali, così da incentivare le coalizioni elettorali prima del voto e favorire in tal modo la formazione di maggioranze parlamentari coese.

Ora si vuole nuovamente modificare tale legge elettorale, sostanzialmente per due ragioni. La prima, giuridica, per contenere gli effetti della (eccessiva) riduzione dei parlamentari (400 deputati, 200 senatori) prevista dal disegno di riforma costituzionale che dovrebbe essere votato il prossimo ottobre. Infatti, alcune regioni eleggerebbero un numero così minimo di senatori da impedire ai partiti diversi dai primi due più votati di ottenere seggi. Insomma, avremmo un proporzionale che di fatto funzionerebbe come un maggioritario.

La seconda ragione, più propriamente politica, è invece dettata da motivazioni concorrenti ma opposte. Da un lato chi, come la Lega, sta promuovendo – tramite i consigli regionali in cui il centro destra è maggioranza – la richiesta di referendum abrogativo della parte proporzionale della legge elettorale, per renderla interamente maggioritaria così da favorire la capacità dei partiti di coalizzarzi (richiesta, sia detto per inciso, di dubbia ammissibilità perché non in grado di assicurare all’esito del referendum una legge elettorale autoapplicativa).

Dall’altro lato chi (Pd e M5S), per non favorire tale prospettiva e non essere costretti contro voglia a coalizzarsi, vorrebbe all’opposto abolire la parte maggioritaria dei collegi uninominali, trasformando il sistema in interamente proporzionale, salvo la possibilità di elevare la soglia di sbarramento (oggi al 3%) per evitare (almeno in entrata) la frammentazione delle forze politiche parlamentari.

Come detto all’inizio, questo uso congiunturale della legge elettorale non può essere condiviso non solo perché talora ispirato ad intenti strumentali e “vendicativi” nei confronti degli avversari politici. Non siamo tra quegli ingegneri costituzionali che ritengono che la legge elettorale sia “la leva che solleva il mondo”, cioè che basti intervenire su di essa per avere d’incanto maggiore rappresentatività e governabilità.

Non va mai dimenticato, infatti, che – tra patti di desistenza, previa spartizione di collegi blindati e capolista bloccati – nel nostro paese siamo riusciti a proporzionalizzare anche il maggioritario, a dimostrazione di come la politica esprime delle esigenze che nessuna formula elettorale può contenere. Basta a tal proposito ricordare quanto le coalizioni elettorali si siano dimostrate buone per vincere le elezioni ma non per governare, come testimoniato dalle persistenti crisi di governo.

È pur vero però che la legge elettorale è parte del sistema di governo e il suo frequente cambiamento contribuisce alla continua fibrillazione del sistema politico, favorendo la composizione o scomposizione delle forze politiche che lo compongono. Il che aggrava oggettivamente oltre modo la crisi di rappresentanza dei partiti politici. Anziché sulle regole del gioco, sarebbe allora opportuno che ci concentrasse sui suoi giocatori, e cioè proprio sui partiti, sulla loro democrazia interna, sui loro mezzi di finanziamento, perché è da essi che, in definitiva, dipende la partecipazione politica dei cittadini e la effettiva capacità della nostra democrazia di percepire e rispondere ai loro interessi e bisogni.

Salvatore Curreri è professore in Istituzioni di Diritto pubblico

Università degli Studi di Enna “Kore”

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