Ricordo di Lee Konitz

Si è spenta una delle ultime icone viventi della grande storia del jazz. La serena umanità del sassofonista.
Lee Konitz (CRISTIANO LARUFFA/LAPRESSE)

Il virus non guarda in faccia nessuno. Il Covid 19 s’è portato via anche Lee Konitz, una delle ultime icone viventi della grande storia del jazz. Aveva 93 anni e si è spento al Lenox Hill Hospital di Manhattan il 15 Aprile. La musica di Lee Konitz, assolutamente unica, ha attraversato tutte le epoche del Jazz, dallo swing e dal bebop fino ai giorni nostri.

Da bambino ascoltava Benny Goodman alla radio; a dodici anni ricevette in dono dai genitori un clarinetto; passò al sax tenore e poi al contralto. Era arrivato a New York da Chicago negli anni quaranta, giusto in tempo per incontrare l’ambiente mitico del bebop. Erano pochi gli altosassofonisti di allora ed il giovane Konitz ricevette da Charlie Parker un endorsement non da poco: «Sei l’unico che non suona come me», gli disse un giorno il mitico Parker.

Ma è Lennie Tristano che Konitz riconobbe come suo vero maestro. Di Chicago anch’egli, non vedente, era il mitico e leggendario pianista delle session discografiche che resero famosa la rivoluzione del bebop. Tristano è considerato il fondatore del genere cool jazz che, per inciso, non vuol dire “freddo” ma “elegante” o “calmo e rilassato.

E Lee Konitz, insieme a Jerry Mulligan, Chet Baker, Miles Davis, fu esponente più in vista di questo importante genere musicale; eppure Konitz attraversò tutti i generi musicali, dallo swing al jazz più attuale dei giorni nostri in una mirabile condizione di stand alone, come stagliando la sua figura personalissima sullo sfondo del mondo musicale che lo circondava, qualunque esso fosse. E al di là del cool, non si può dire che la musica di Konitz sia legata ad alcun genere né ad uno stile pur avendoli incontrati ed interpretati un po’ tutti. Un formidabile innovatore del linguaggio, attivo fino all’anno scorso per oltre settant’anni.

Con la forte personalità, di cui Charlie Parker stesso gli diede atto, Konitz ha sempre parlato un suo linguaggio del cuore, profondo, abissalmente profondo ma sempre sereno, equilibrato ed anche pieno di ineffabile gioia. La sua musica, pur profonda è sempre parsa distaccata dai dolori e dalle sofferenze esistenziali che hanno segnato la vita di certi compagni di viaggio come Charlie Parker, Miles Davis, Bill Evans, Chet Baker.

Si può dire che per molti di essi come per lui, il jazz non fosse un genere musicale, ma un radicale modo di pensare. I lunghi, arditi, caratteristici discorsi del suo sax alto erano libere escursioni, ampi voli dentro un cielo enorme, misterioso e sconfinato; quel cielo, in cui Lennie Tristano lo aveva introdotto da giovane e nel quale lui sapeva volare libero ed a suo agio.

Conobbi Lee Konitz e lo ascoltai più volte dal vivo. L’ultima volta fu in un vecchio cinema di periferia riconvertito in discoteca, come si usava allora. Era in duo con il pianista italiano Enrico Pieranunzi, ai tempi del loro sodalizio artistico che produsse, tra l’altro, i dischi “Solitudes” e “Blew”.

Oggi che Lee non c’è più Enrico lo ricorda con molto affetto rivelando aspetti della serena umanità del sassofonista. «Mi piace il jazz, non l’ambiente del jazz», gli disse Konitz. E una sera, dopo un concerto, parlando di “massimi sistemi” il longevo sassofonista gli confidò che credere nell’al di là gli piaceva, lo faceva star bene.

Piace anche noi immaginarlo in quell’aldilà che lui sognava. E con Pieranunzi, pensarlo in quel mondo pur fatto di suoni celesti in cui incontrare Charlie Parker, Lennie Tristano, Chet Baker, Miles Davis.

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