Riconciliati con lo sport

Aluci spente dobbiamo ammetterlo: i giochi di Atene ci hanno riconciliati con lo sport. E il merito è tutto degli atleti che a colpi di gesta sportive si sono riconquistati la scena troppo spesso usurpata loro dagli sponsor. Dopo il naufragio nell’acqua minerale delle velleità portoghesi di Del Piero, ammaliato dal suo passerotto, si sono sciolte al sole del Pireo anche le barrette al cioccolato di Fiona May, affondata nella sabbia dello stadio olimpico. Senza essere ingenui, visto che i quattrini delle aziende saranno indispensabili ad Atene per pagare i miliardi di euro spesi per le Olimpiadi più costose della storia, a tornare veri padroni dello sport non sono stati solo i 301 coronati d’alloro sul podio più alto, ma indistintamente tutti i 10.500 atleti che hanno reso memorabile quella che un giornalista ha definito la più straordinaria utopia planetaria inventata dall’umanità. Ci hanno regalato quindici giorni di gioia e di lacrime, di smorfie e di sorrisi, di stress e di urla liberatorie. Ci resterà negli occhi una sequenza indimenticabile di volti e di gesti che hanno testimoniato prima di ogni altra cosa la fondamentale e comune soddisfazione di essere presenti ai Giochi. Un giorno la racconteranno ai nipotini. In quale altro evento sportivo il suggestivo incanto di tremila anni di storia, raccontati nella cerimonia di apertura, è punteggiato dai flash degli atleti che fotografano il pubblico? Intossicati dal calcio professionistico di oggi, con giocatori obbligati a giocare (e vincere) settanta partite l’anno per saziare l’appetito degli sponsor, ci ha messo i brividi assistere alle rivincite sportive di questi campioni bisestili, gente che per quattro anni fatica e soffre, spera e costruisce, prova e riprova, sbaglia e ricomincia, lontano da pubblico e telecamere, per quei pochi secondi di gloria olimpica. Pronti a tornare nell’oblio, sportivamente parlando, per altri quattro anni. È questo il grande segreto custodito da personaggi d’oro come Marco Galiazzo, l’arciere miope, ventunenne campione di genuinità, lo sguardo pudico in una faccia qualunque, partito dalla campagna di Padova per Atene convinto che siccome nessuno è imbattibile tanto vale provarci. O come Igor Cassina, ginnasta così atipico per le sue misure fisiche che, per farsi largo in un olimpo di scoiattoli, inventa alla sbarra un movimento che prende il suo nome, un volteggio che è una autentica sfida alla legge di gravità. Sceso a terra, ai cronisti conferma, senza imbarazzo, che già a sette anni sognavo l’oro olimpico. O come Federica Pellegrini, sedici anni, la mascotte della delegazione azzurra, che ha trasformato in quelle quattro vasche olimpiche a stile libero la sua acerba carica di speranze in una ipoteca senza fondo per il nuoto azzurro. O come Ivano Brugnetti, campione operaio nella marcia, la disciplina più proletaria dell’atletica, quella che lo stadio lo vede solo l’inizio ed alla fine: dopo anni di delusioni il suo è un successo costruito con seimila chilometri l’anno di marcia solitaria sulle strade di periferia, sotto la pioggia o il sole, alla ricerca ostinata della massima fluidità e redditività del gesto. O come le piccole acrobate della ginnastica ritmica, un manipolo di sei minuscole, ma normalissime ragazze selezionate con passione in giro per l’Italia dalla loro allenatrice, Emanuela Maccarani, e custodite per quattro anni in un albergo di Desio. Lì hanno costruito il loro argento allenandosi dieci ore al giorno, provando ben 3 mila (sic!) volte il loro gioco armonioso e perfetto di nastri, palle e cerchi che volano precisi da una all’altra, ad altissima velocità. O come Stefano Baldini, figlio di contadini, entrato nella storia per quei 42.195 metri d’oro, gli stessi che corse Fidippide nel 490 a.C., da Maratona allo stadio Panathinaiko. In quello stadio, in cui nel 1896 si disputarono le prime Olimpiadi dell’era moderna, Baldini ha coronato nel modo migliore la propria tormentata carriera grazie alla sua irriducibile tenacia. In una sequenza in cui pare un’offesa non citare tutti, meritano un ricordo gli schermidori di cui, ingrati, ci dimenticheremo in fretta per riaffidarci alle loro lame per rimpinguare il medagliere di Pechino 2008. Merita un ricordo la normalità delle ragazze della pallanuoto che alla soglia dei trent’anni, con un oro al collo, si preparano chi a sposarsi, chi a diventare madre, chi a partire come volontaria per l’Africa. l’Africa. E lo meritano i vecchi della pattuglia azzurra, come il ginnasta Jury Chechi, risorto da infortuni devastanti, o come la canoista Josefa Idem che a 40 anni porta sul podio anche i suoi due splendidi bambini. O i suoi colleghi Rossi e Bonomi, che, con le loro nove medaglie olimpiche in bacheca, sono attesi finalmente a casa a … falciare l’erba del loro giardino trascurato da tempo. La solitudine di queste centinaia di atleti, anonimi per anni, tramutata in celebrità in pochi secondi grazie ai Giochi è tutta nelle loro dediche: quella del primo oro olimpico israeliano, venuto dal windsurf, che Gal Fridman ha dedicato agli atleti connazionali uccisi dai terroristi a Monaco ’72; o quella voluta da Gilardino, dopo il suo gol che vale un bronzo nel calcio, dedicato alla memoria di Enzo Baldoni, ammazzato in Iraq; o quella dell’australiana Misty May che con l’oro al petto e le lacrime agli occhi ha sparso nella sabbia del suo trionfo nel beachvolley le ceneri di sua madre, morta recentemente. Gesti che le telecamere di tutto il mondo hanno esaltato. Ma anche gesti privati, sconosciuti ai più, come quello del nostro tiratore Giovanni Pellielo, che ha voluto donare il premio in denaro offertogli dal suo comune, Vercelli, ai poveri della città. Infrangendo la suggestione che quel che conta è partecipare, l’apertissimo confronto offerto dalle Olimpiadi le rende una straordinaria fucina di record sportivi; ma è giusto ricordare che fra i record battuti ad Atene vi è quello del numero di controlli anti-doping eseguiti: ben tremila con due dozzine di positivi, anche questo un record. Tra i tanti quello della russa Irina Korzhanenko che, profanando il solenne ritorno delle gare sull’erba della collina di Olimpia, ha affidato alla chimica i suoi muscoli per gettare il suo peso oltre i ventuno metri, confermando che nello sport, come nella vita, la battaglia contro la vittoria ad ogni costo è ancora lunga. Ma la bellezza dello sport è custodita proprio nell’intima contraddizione da cui è alimentato: spendere ogni energia per raggiungere il successo e garantire a tutti, grazie a regole comuni, le possibilità di raggiungerlo. La fiaccola non è spenta.

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