Ricominciare assieme a loro

La terra trema ancora, mentre si va normalizzando la vita nelle tendopoli e iniziano gli accertamenti di responsabilità. Gli sfollati chiedono impegni precisi per la ricostruzione.
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«D’accordo, la scossa distruttiva è stata di 5,8 gradi Richter – afferma Antonella, che gestisce una delle poche edicole aperte a L’Aquila –, ma ne sono seguite tante altre, troppe altre, ancora del quinto grado o di poco inferiori. E questo ci fa rimanere in uno stato d’angoscia».

Tanto che abbiamo raccolto da varie persone la convinzione che la scossa più forte debba ancora giungere. Nulla di fondato, ovviamente, né, tanto meno, di prevedibile, ma quella certezza manifesta il drammatico stato di precarietà. La terribile scossa delle 3,32 del 6 aprile non è rimasta affatto isolata. Gli esperti parlano del consueto «sciame sismico», come di un fenomeno quasi privo di pericoli. Ma queste affermazioni non rasserenano le popolazioni della provincia dell’Aquila e dintorni.

Alle scosse non ci si abitua. Ed ogni volta che la terra trema si legge sul volto delle persone – e nel respiro trattenuto – l’angoscia sperimentata con la scossa distruttiva che si torna a rivivere con incontrollabile intensità emotiva. E l’ormai lunga sequenza delle “danze” mette alle corde la tenuta psicologica delle persone, ma provoca ben altro: lesiona ulteriormente gli edifici, rende più pericolose le pur ingabbiate pareti rocciose a ridosso delle strade, pone sotto osservazione i ponti, interroga sulla sicurezza del lago di Campotosto (secondo bacino artificiale d’Europa) e delle tre dighe annesse, una delle quali costruita su una faglia, una frattura della crosta terrestre, che rende l’area “sensibile”.

L’esperto Bertolaso, alla guida della Protezione civile, ripete: «Evitiamo gli allarmismi. Le scosse rappresentano la naturale conclusione del fenomeno. Non ho indicatori che giustifichino scenari più gravi».

Posizione legittima e doverosa, ma lontana mille miglia da quelle che stanno vivendo tante persone. «Io sto a pezzi – confida Marco Pochetti, di Mosciano (Teramo), studente di matematica a L’Aquila –. Dopo aver sentito tremare la casa, chi dorme? Sino a che proseguono scosse così forti è impossibile programmare il futuro».

Marta Di Giovanni, diciannovenne studentessa di ingegneria edile all’università aquilana, non sa trattenere la commozione: «È un’esperienza che cambia. Solo Dio resta. Lo sapevo, ci credevo, ma adesso l’ho sperimentato. Cosa è servito programmare la vita, quando di colpo tutto finisce? Vivo adesso un giorno alla volta, anzi, un attimo alla volta». Domenica 5 aprile la scossa di poco prima delle 23.00 fu accompagnata da un boato. Marta si prese un grande spavento. Con le colleghe non sapeva cosa fare, anche se la casa in affitto, costruita negli anni Novanta, sembrava sicura. Telefonarono ai rispettivi genitori. Sembrava che avessero concordato la risposta: non preoccupatevi, non è il caso di esagerare, pensate piuttosto a studiare. Chissà quanti rimorsi, anche se le figlie sono riuscite a salvarsi.

Chiara Salvatorelli, 24 anni, corso di odontoiatria, ricorda bene la scossa delle 22,45. Era al telefono con Lisa: che spavento! Le altre studentesse delle rispettive abitazioni avevano già lasciato L’Aquila. Sole in due case. Decidono di dormire insieme. «Vengo da te? Vieni da me?». Meno male che Chiara andò dall’amica. La sua casa era situata in via XX Settembre, una delle aree più disastrate.

 

Da gennaio le scosse

 

A gennaio iniziano a farsi sentire le scosse. Chiara ammette: «C’eravamo così abituati che risultava strano quando la terra non tremava». Marco Pochetti conferma e si spinge oltre. Ricorda che lunedì 30 marzo le scosse erano diventate «belle toste», tanto che il giorno dopo furono chiuse le scuole. «Giusto non creare allarmismi – sottolinea – , ma almeno noi universitari potevamo essere mandati a casa. Troppi ne sono morti». Aggiunge un particolare non secondario: «I cani avevano iniziato ad abbaiare già domenica 5, poi i latrati erano aumentati all’una di notte del 6». Due ore e mezzo prima della scossa assassina.

«In condizioni disperate arrivavano giovani, molti giovani al Pronto soccorso di Teramo – riferisce Santa De Remigis, medico –. È stato estremamente doloroso il rapporto con i genitori, che venivano a cercare i figli, o chiamati a riconoscerli».

Francesco Storto, del Soccorso alpino di Teramo, impegnato nei due palazzi di via sant’Andrea, a L’Aquila, andati completamente giù: «Sono abituato a recuperare corpi in montagna e conservare il necessario distacco. Ma qui, quando sono entrato in contatto con la sofferenza dei familiari degli studenti morti che abbiamo tirato fuori, ho avvertito tutta la dimensione gigantesca della catastrofe».

 

«Siamo ancora vivi»

 

Per chi ha perso qualche congiunto – talora un figlio, in qualche caso l’intera famiglia –, il dolore atroce ha annientato l’esistenza. La vita è cambiata anche per chi ha perso i beni e si trova nella tendopoli di piazza d’Armi, nel centro dell’Aquila, come la signora Carla: «Il mattone era il rifugio dei nostri risparmi, dopo le delusioni della borsa. Avevamo tre case, qui in città. È rimasto in piedi solo qualcosa di una, ma siamo vivi».

Il terremoto, ascoltando i sopravvissuti, sembra proprio che abbia fatto emergere ciò che vale davvero. «Siamo ancora in vita. Questo è importante – sottolinea un anziano, ospitato nella tendopoli allestita a fianco di Onna, abitato in gran parte distrutto –. Adesso ricominceremo dal nulla, ma è andata peggio ai 300 morti».

Né lui, né altri abbiamo sentito imprecare. Piuttosto, tanta riconoscenza per l’abnegazione dei soccorritori, per l’immediata generosità degli aiuti, per la vicinanza di tutti. Hanno anche fatto presente a chi di dovere del freddo nelle tende, del disagio per la pioggia e di altro ancora, ma senza alzare la voce. Si sentono persino graziati dal fatto che il terremoto è accaduto in aprile: davanti ci sono mesi di buona stagione. Una prospettiva che conforta, perché sperano ci sia tempo sufficiente per allestire soluzioni più confortevoli delle tende del primo soccorso.

Nelle giornate calde confidano anche Mauro e Candida Picella, che alla periferia di Paganica, 8 mila abitanti, hanno sistemato le loro tende sul prato davanti alle inagibili palazzine a due piani in cui si trova il loro appartamento. Si augurano che le verifiche arrivino presto per capire il tipo d’intervento necessario per tornare ad abitarvi. Accanto alla loro tenda, un ciliegio in fiore, di bianco vestito, invita alla fiducia: è la natura, la stessa che, con le sue scosse, ha prodotto distruzione e morte.

 

Ricostruire. Anche dentro

 

Certo, la vicenda dell’ospedale del capoluogo non conforta gli aquilani. Era considerato un edificio sicuro, una garanzia in caso di calamità, dopo una tribolata costruzione durata 28 anni e un costo passato da 11 miliardi di lire a 200. Facile immaginare i tanti giri di tangenti, e amaro adesso è dover costatare il mancato rispetto delle norme di costruzione (pilastri portanti che non hanno retto) e fasulli controlli. Così come in altri edifici.

Il disprezzo delle regole e dell’interesse generale aggrava enormemente il bilancio complessivo del sisma, come ha rimarcato il presidente Napolitano. Il modo più efficace per iniziare la ricostruzione è allora proprio quello di accertare le responsabilità di progettisti, costruttori e controllori con indagini giudiziarie che non raggiungano tempi biblici ed esiti incerti. Significherebbe uccidere, in chi è rimasto, la fiducia ancora superstite nelle istituzioni.

Mentre la terra continua a tremare – a due settimane dal sisma ancora scosse del quarto grado –, per i 20 mila sfollati inizia la fase 2, quella della decrescente attenzione dei mezzi di comunicazione (ma Città nuova continuerà a stare vicino agli aquilani) e della possibile, conseguente “distrazione” del Paese. Ma è pure il tempo in cui si inizierà a dar prova degli impegni presi da parte delle istituzioni: massima trasparenza nelle agevolazioni a famiglie e imprese e nella destinazione dei soldi; assoluta semplicità burocratica in modo che le nuove regole siano chiare per il miglior rispetto e controllo; infine, ascoltare sempre le popolazioni colpite.

Un’altra ricostruzione non va dimenticata. Quella delle numerosissime persone traumatizzate dal sisma. Le crisi di panico, lo stato d’ansia e d’insicurezza, la difficoltà a gestire l’incerta quotidianità e a progettare sono accompagnate spesso da insonnia e mancanza di reattività.

«I giovani sono i più esposti – ci spiega Giuseppe Riccio, neurologo, dirigente di psichiatria della Asl di Teramo, che opera con gli sfollati –, perché non hanno una memoria di eventi così gravi e il terremoto ha fatto precipitare le loro certezze di un futuro ricco di avvenimenti positivi».

I sintomi del trauma dureranno mesi, quando non resteranno permanenti. «Saperli gestire – chiarisce Riccio – è comunque possibile, ma non basta il supporto della psicoterapia e delle medicine. Servono contesti ricchi di relazioni. Allora, i danni del trauma possono diventare reversibili». In questa cruciale ricostruzione interiore, la generosità e il calore umano di gruppi, movimenti e associazioni possono fare molto. Come già si sta vedendo mentre ancora la terra trema.

 

Paolo Lòriga

 

 

Molto più della solidarietà

 

«Solo entrando nel centro dell’Aquila ci siamo resi conto delle dimensioni della tragedia: edifici sgretolati e persone disorientate». Alle 9,30 del tragico lunedì 6 aprile, Umberto Paciarelli, volontario del Soccorso alpino e speleologico, è già impegnato nei soccorsi. Raggiunto nella notte per telefono nella sua Tivoli (Roma), è subito partito. Non verrà in redazione, lui, responsabile del settore grafico della nostra rivista. Due, le sue immediate impressioni: «I volti scioccati delle persone, che chiedevano notizie e acqua, e l’iniziale mancanza di coordinamento dei soccorsi».

Con il suo gruppo è in centro, a quasi dieci metri dal suolo, sopra le macerie di una casa implosa, abitata da studenti. Alle 12,30, da un anfratto del sottotetto, un collega e lui avvertono la flebile voce di Marta: «Sembrava venisse da lontano, ma era solo quattro metri distante da noi». Inizia un lavoro intenso e delicatissimo per raggiungerla. L’operazione è resa più ardua dalle scosse («Mai sentite così frequenti») e dal timore che il fisico della ragazza non reggesse. Ma, dopo 14 ore, eccola salva.

«Abbiamo provato una gioia enorme, – ricorda Umberto –, tra l’applauso di chi era attorno e la disperazione dei genitori che attendevano il recupero dei figli. Ne abbiamo tirati fuori tre, senza più vita». Un particolare: «Eravamo esausti, con una fame da lupi, perché solo a mezzanotte erano arrivati un po’ di pane e prosciutto». Hanno continuato sino all’ora di pranzo, quando forze fresche sono arrivate a sostituirli.

«Nella polvere dell’Aquila si è respirata tanta umanità – ci racconta in redazione –. Erano crollati pregiudizi, presunzione, arroganza e sembrava fosse rimasta solo la “purezza” dell’uomo, come fossimo stati appena creati. C’era molto più della solidarietà: l’umanità di tutti era emersa nella sua splendida grandezza».

 

 

I volti dei familiari

 

Senza vedere i terremotati non si capisce il terremoto. Il giorno dei funerali erano arrivati a gruppetti: amici, parenti, conoscenti. Le facce stravolte, il senso di smarrimento, lo strazio. Più di cinquemila persone avevano riempito il vasto cortile interno della scuola della Guardia di Finanza nella periferia dell’Aquila.

Come dimenticare quanto visto di persona? Una distesa infinita di bare lungo tutto il lato della piazza. Una luce chiara e tiepida le illumina. Nessuno parla prima dell’estremo saluto. Anche suore e preti piangono perché hanno perso tutto. Fa impressione vedere uomini di Chiesa sradicati da quella terra come gli altri. Una terra magari non loro ma che li ha adottati e ora rifiutati. Sì, perché il terremoto appare come il rifiuto della terra, che vuole scrollarsi di dosso tutto quello che l’uomo ha costruito. Migliaia di anni di sacrifici, conoscenze, ricerche, capolavori dell’ingegno e dell’arte spazzati via in un attimo. È un senso di estraniazione dalla vita, in cui si perdono tutte le coordinate essenziali, e in cui, paradossalmente, si vede con chiarezza ciò che veramente vale.

Aurelio Molè

Un appello ai papà

dal falegname Vincenzo

 

Non è la morte che insegna la vita. Ma talvolta è cadendo che si impara a stare in piedi. Le macerie d’Abruzzo hanno travolto in pochi secondi tutto e tutti: persone amate e case costruite con fatica. Legami, ricordi e sogni.

A giorni di distanza tornano ad animarsi ricordi che parlano la lingua del presente. Lezioni di vita che vengono da chi ha visto in faccia la morte. Ripenso soprattutto a Vincenzo, falegname. Limpido come il cielo azzurro sopra il Gran Sasso, fiero elegante e semplice come le splendide chiese romaniche, ora sfregiate, che si incontrano sulla strada che dal capoluogo porta fino a Popoli. Vincenzo ha una bambina di nove anni e un piccolo di sei mesi. La sua abitazione a Onna è franata, i suoi vicini di casa tutti morti, mentre lui con la sua famiglia è riuscito a salvarsi.

Prima che lo saluti dopo una lunga intervista, mi dice la cosa che sembra stargli più a cuore: «Vorrei lanciare un appello a tutti i papà. Quelli che corrono dietro al lavoro, che per i figli non hanno mai tempo. Fermatevi. I vostri bambini dovete amarli oggi, domani potrebbe essere troppo tardi».

Noi che quella tragedia l’abbiamo raccontata e quelli che l’hanno solo vista in tv. Noi tutti che mai riusciremo a entrare nella pelle di chi ha subito quei lutti senza senso, almeno questo dobbiamo a tutte le vittime abruzzesi. Onorare la loro memoria raccogliendo la lezione che ci mandano: essere vivi è un dono, una fortuna e una responsabilità. Se vuoi rendere migliore questo mondo, non rimandare a domani quello che puoi fare oggi. Muoviti adesso, subito. Solo questo serve per rendere antisismiche le nostre esistenze.

Gianni Bianco

Mettere in sicurezza il Paese

 

Il territorio dell’Appennino centro meridionale, fragile e vulnerabile, esposto alla proterva ciclicità dei terremoti, rappresenta in modo emblematico l’elevato rischio sismico del nostro Paese. La perdita di vite umane, l’entità del danno alle abitazioni private, la scomparsa di interi paesi, l’assenza di adeguatezza statica dell’ospedale, della prefettura, della casa dello studente, impongono ad ogni coscienza l’urgenza della messa in sicurezza del patrimonio edilizio e del territorio.

L’adozione di norme antisismiche, doverosa e necessaria, è solo il primo passo. Nessuna sanzione potrà essere un deterrente sufficiente senza una rinnovata coscienza dei cittadini, senza l’impegno etico di politici e tecnici.

Ma non basta l’appello alle coscienze. È necessario riflettere seriamente sulla proposta avanzata in questi giorni in forme simili da Tito Boeri (economista), Gianantonio Stella (giornalista) e dal ministro Brunetta, di utilizzare anche incentivi di mercato: 1. non deve più essere economicamente conveniente la costruzione “a risparmio” di materiali e tecniche antisismiche; 2. ci debbono essere agenti terzi che hanno l’interesse a verificare il rispetto delle norme; 3. è necessaria un’assicurazione obbligatoria e privata contro le calamità naturali, che faccia aumentare il costo di una casa se i materiali non sono adeguati.

Elena Granata

(docente di Analisi della città

e del territorio, Politecnico di Milano)

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