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Riarmo e deterrenza nel caso Rwm, dialogo con Giorgio Beretta

a cura di Carlo Cefaloni

Carlo Cefaloni

I nodi dell’industria militare in Europa nel caso della strategia di Rheinmetall in Italia e quella di Leonardo a controllo pubblico. Intervista al ricercatore Giorgio Beretta. Il valore dell’impegno a partite dai territori. Un contributo in vista della manifestazione Segnali di futuro in programma ad Iglesias in Sardegna dal 14 al 15 novembre

Fabbrica Rheinmetall EPA/HANNIBAL HANSCHKE

Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio Opal, è uno dei massimi esperti di questioni legate alla produzione ed esportazione di armi e quindi di industria militare ma le reti televisive mainstream si guardano bene dall’invitarlo nelle loro trasmissioni. Lo sentiamo per fare il punto della situazione alla vigilia della sessione del Laboratorio sulla riconversione dell’economia in programma ad Iglesias dal 14 al 15 novembre.

 

Siamo nel pieno del riarmo europeo che sembra senza alcun freno politico. Quali sono le critiche di fondo alle scelte dei vertici della Commissione europea?

Possiamo dire che siamo davanti ad un sistema industriale che non è affatto primariamente calibrato sulle effettive esigenze di difesa europee, ma fortemente dipendente dalle esportazioni verso paesi extra-UE ed extra-NATO, in particolare in Nord Africa e Medio Oriente. Questa dipendenza economica alimenta un modello di business in cui le aziende europee, in competizione tra loro, creano attivamente la domanda di armamenti partecipando a fiere internazionali in regioni ad alta tensione. Pensiamo a quella che si sta svolgendo in questi giorni in Egitto

Come si pone in tale contesto la strategia di Rwm che vuole espandersi in Sardegna? 

Mi sembra una strategia legata non solo a piani di difesa europei ma anche a importanti commesse per l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, e alla produzione su licenza di droni israeliani. L’acquisizione di queste tecnologie, testate nel conflitto a Gaza, segnala l’adozione di un modello di guerra e controllo che solleva gravi interrogativi sul suo potenziale uso interno. : Il Ministro della Difesa israeliano ha dichiarato che, dopo l’intervento a Gaza, Israele ha registrato un record di richieste di esportazione di armi (circa 14,6 miliardi di dollari), di cui la metà proveniente da paesi europei. Questo posiziona l’Europa come un attore chiave nel sostenere l’industria bellica israeliana, sebbene il principale fornitore di armi a Israele restino gli Stati Uniti.

Quali sono le principali linee di produzione della Rwm?

La produzione di bombe e missili a Domusnovas è in gran parte destinata all’esportazione verso Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita e Ucraina. La Rwm ha, inoltre, acquisito dalla compagnia israeliana Uvision la licenza di produzione dei droni “kamikaze” Hero 30, non solo per il mercato italiano ma per l’intera Europa. Il primo paese europeo interessato ad acquistare questi droni è l’Ungheria. Si tratta quindi di una vendita che solleva interrogativi sull’uso potenziale di tali sistemi: non per la difesa esterna (data la relazione “simpatetica” dell’Ungheria con la Russia), ma per il controllo interno, ad esempio contro migranti o manifestanti.

Cosa comporta l’uso di tali droni?

In pratica l’adozione da parte dei decisori politici europei di un modello Gaza e cioè di guerra e controllo della popolazione che travalica la difesa tradizionale. La Rheinmetall che controlla interamente la Rwm vuole sviluppare sinergie con l’italiana Leonardo, oltre a quelle per il carro armato europeo.

A tal proposito qual è il rapporto di fornitura di armi tra Leonardo e Israele?

Il governo italiano ha sospeso l’autorizzazione di nuove licenze verso Israele. Si è trattato, ad ogni modo, di una decisione tecnica e precauzionale dell’UAMA (Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento), non di una scelta politica di revoca. Tanto è vero che, al contrario, le esportazioni autorizzate in precedenza non sono state revocate e proseguono.

L’ad Roberto Cingolani, intervistato dal Corsera, ha confermato che Leonardo fornisce assistenza con personale sul posto (quattro tecnici), contrariamente a precedenti dichiarazioni che parlavano di sola assistenza da remoto.

Cosa ha detto Cingolani delle aziende di Leonardo all’estero?

Cingolani ha confermato che  Leonardo esporta verso Israele tramite le sue controllate statunitensi (come DRS), sostenendo di rispondere alle leggi americane. Una tesi contestabile perché un’azienda a controllo statale italiano dovrebbe decidere autonomamente le proprie politiche di esportazione. La gestione di Leonardo S.p.A. evidenzia una tensione fondamentale tra il controllo statale e le pressioni degli investitori internazionali. Sebbene sia un’azienda partecipata dallo Stato per oltre il 30%, Leonardo dichiara di dover rispondere primariamente alle richieste degli investitori e degli azionisti internazionali (grandi fondi come KKR e Vanguard).

Questa dinamica suggerisce che le strategie aziendali sono guidate più dagli interessi dei fondi internazionali che dalle normative nazionali o dalle effettive esigenze di sicurezza e politica estera italiane. La questione centrale diventa chi controlla realmente Leonardo: lo Stato italiano o la finanza globale.

Il caso Rwm ha dimostrato che i rapporti con Emirati Arabi Uniti (EAU) e Arabia Saudita  sono un esempio di come avvengono certe decisioni politiche in materia di export di armi. Cosa è accaduto secondo le tue ricerche?

Il governo Conte revocò nel 2021 le licenze per bombe e missili a EAU e Arabia Saudita per il loro impiego nel conflitto in Yemen, introducendo un “certificato di uso finale rafforzato” per impedire l’uso delle armi in quel contesto. Prima il governo Draghi ha rimosso la necessità di tale certificato rafforzato e poi il governo Meloni: Ha riattivato completamente le licenze di esportazione di bombe e missili verso entrambi i paesi.

Gli EAU oggi sono stati accusati di fornire armi alle forze RSF in Sudan…

In questo caso non c’è prova che armi italiane arrivino direttamente in Sudan, ma il continuo rifornimento di armi agli EAU pone un problema di responsabilità. La reintroduzione di un certificato di uso finale rafforzato potrebbe aiutare a prevenire ogni coinvolgimento. Esiste poi un problema di trasparenza  perché i dati ISTAT sulle esportazioni dal porto di Cagliari possono mascherare le spedizioni di bombe classificabili come “altri materiali metallici”, per nascondere l’entità dei flussi verso EAU e Arabia Saudita.

Sta di fatto che esiste una tendenza a non porre troppo limiti sulle armi davanti alla necessità di rafforzare la difesa di un continente europeo circondato da pericoli esterni da cui deve difendersi…

 La discussione sulla difesa europea è spesso viziata da narrative fuorvianti e da una dottrina, quella della deterrenza, che alimenta la corsa agli armamenti. L’idea, promossa da figure come Mario Draghi, che l’Europa sia un vaso di coccio in balia di vasi di ferro e cioè militarmente debole è smentita dai dati. Secondo il SIPRI, nel 2024 la spesa militare aggregata dei paesi UE è di 346 miliardi di dollari, rendendola la seconda potenza mondiale dopo gli USA (997 mld) e davanti alla Cina (316 mld) e alla Russia (150 mld). L’invito della NATO a seguire il modello americano (spesa militare oltre il 3,5% del PIL) implica l’adozione di una postura militare proiettiva su scala globale, non necessariamente allineata con le specifiche esigenze di difesa europee.

Ma l’Europa non deve comunque con realismo seguire la linea della ricerca della pace tramite la deterrenza ?

Questa dottrina si fonda sul postulato che per prevenire un’aggressione sia necessario armarsi più del potenziale avversario. Questo innesca inevitabilmente una reazione speculare, generando una spirale ascendente di riarmo (corsa agli armamenti) piuttosto che un equilibrio stabile. L’assenza di una visione strategica comune in Europa è evidente nello sviluppo di due sistemi di caccia di sesta generazione concorrenti: il Tempest/GCAP (Italia, UK, Giappone) e il FCAS (Francia, Germania, Spagna). Questo denota una logica competitiva interna e una preferenza per strumenti di proiezione di potenza (cacciabombardieri) piuttosto che di pura difesa.

Contro Seafuture Foto GB

Spesso, gli eventi che accadono in una singola città possono rivelare tendenze sociali e politiche molto più profonde e significative. Le recenti mobilitazioni a La Spezia contro l’evento “Seafuture 2025” ne sono un esempio lampante: non si tratta solo di una notizia locale, ma di un caso di studio che offre un’inaspettata lezione su come la coscienza locale, di fronte a dilemmi globali, possa forgiare alleanze ritenute impossibili e riscoprire la propria forza. Cosa è accaduto a La Spezia?

Abbiamo visto una unità senza precedenti dei gruppi che hanno manifestato il loro dissenso verso una fiera di armi come è di fatto Seafuture. Per la prima volta, si è assistito a una presa di posizione coesa da parte di una coalizione composta da Associazioni Laicali Cattoliche e Chiese Riformate. L’impatto delle proteste locali è stato amplificato dal contesto in cui si sono svolte. Le manifestazioni a La Spezia sono avvenute in contemporanea con un’ondata di mobilitazioni in tutta Italia e in Europa riguardo al conflitto a Gaza, inserendo la questione locale in una narrazione molto più ampia di guerra e diritti umani. All’evento erano state ufficialmente invitate una delegazione governativa israeliana e la Marina Militare Israeliana. Sebbene queste delegazioni abbiano declinato la partecipazione, un fatto cruciale ha catalizzato l’indignazione: “questo invito non gli è mai stato revocato”. Questo dettaglio amministrativo si è trasformato in un potente simbolo politico e morale, perché è stato percepito come un segnale di indifferenza – o peggio, di tacita approvazione – da parte degli organizzatori, trasformando una formalità in una dichiarazione di valori che ha galvanizzato l’opposizione.

In che modo si è espressa questa opposizione?

Si è vista la capacità della comunità di organizzare una protesta tanto determinata quanto pacifica. La vera posta in gioco, quindi, non era solo opporsi a un evento, ma dimostrare che un dissenso maturo, diversificato e nonviolento rappresenta una forma di potere civico resiliente e costruttivo. Gli eventi di La Spezia come il grande lavoro del Comitato riconversione Rwm ci insegnano che una mobilitazione locale può rivelare alleanze sorprendenti, connettersi a questioni globali urgenti e dimostrare uno straordinario potere civico.

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