Rembrandt in Vaticano

L'artista olandese torna a Roma con 55 stampe e due dipinti su tela, a due passi dalla Cappella Sistina. Da non perdere, fino al 26 febbraio
mostre

I giornali si sono meravigliati per “la prima volta” di un artista protestante in Vaticano. E l’hanno collegata alla recente visita di papa Francesco in Svezia, quindi come un incontro “ecumenico” d’arte tra cattolici e riformati. Forse dimenticano che il Vaticano dal punto di vista dell’arte è sempre stato più che aperto. Un esempio? La tomba del papa Pio VII in San Pietro è dello scultore protestante Thordvalsen, ma gli esempi sarebbero molteplici. Per non citare gli artisti agnostici o non credenti che affollano la Galleria d’arte moderna.

Rembrandt era già stato a Roma nel 2008 in una memorabile mostra alle Scuderie del Quirinale. Ora torna con 55 stampe e due dipinti su tela – provenienti dal Museo Zorn di Svezia e dall’olandese Kremer Collection – in un ambiente a due passi dalla Sistina, dalle Stanze di Raffaello e dall’Apollo del Belvedere. E’ un dialogo tra giganti.

Lo specifico di Rembrandt è l’umanità con cui affronta ogni genere, qui in particolare i soggetti biblici. Parte con uno dei tanti autoritratti in cui esamina in sè stesso i vari atteggiamenti mentali e fisici, ossia pensieri ed emozioni dell’uomo. Poi arriva alle stampe, piccole di formato ma autentici capolavori. Rembrandt è l’artista che più di tutti ha indagato la Bibbia, egli figlio di un protestante e di una cattolica nell’Olanda calvinista del ‘600 e per di più con lo studio nel quartiere ebraico. Non per nulla i personaggi biblici sono ritratti di ebrei contemporanei, non ultimo quel ritratto di Gesù (Monaco, Alte Pinacothek) che è forse il più bello e vero dell’intera storia dell’arte.

Qui in Vaticano egli dimostra di entrare nell’intimo della parola biblica con un’immedesimazione totale e con un linguaggio universale di rara incisività spirituale.

 

Nella Resurrezione di Lazzaro il Cristo alla porta del sepolcro irradia uno splendore divino, quello che fa sorgere l’addormentato Lazzaro. Si sente la forza di quella mano  alzata, di cui si ricorderà un regista colto come Zeffirelli nel suo Gesù.  E se ’Adamo ed Eva anziché due giovani sono due adulti ingrossati ed invecchiati – il peccato produce la morte e quindi la rovina del corpo e dell’anima -, il Cristo che guarisce gli ammalati è una delle stampe più luminose.

La dolcezza del Messia si irradia come luce sulla folla dei sofferenti ed è come una epifania della misericordia che sa esser tenera e comprensiva nel gioco tenue dei chiaroscuri, così come nella Predica di Cristo dalle mani aperte e il volto basso, in cui egli rivela sé stesso. A Rembrandt basta poco a dire nell’essenzialità un contenuto teologico profondissimo.

Tra le opere in mostra tuttavia il culmine sta forse nelle Tre croci del 1653.

Una corale che si avvicina musicalmente ad   una Passione di Bach per emozione, luce, dramma e contemplazione. I tre crocifissi stanno sotto un immenso alone luminoso, mentre intorno si agitano i sentimenti della folla. Ma questa luce è attraversata da una pioggia di fili neri, come un uragano che impedisce all’alone di apparire nella sua pienezza. La divinità del Cristo è nascosta dalle tenebre della morte e dell’ingiustizia umana.

Come sempre, si avverte l’esperienza personale dell’artista, quel dramma che Rembrandt ha vissuto in sé, nella famiglia, nella società per tutta la vita.

Forse anche per questo motivo, oltre la familiarità con la Bibbia, dà alle sue rappresentazioni il timbro di una verità inconfondibile che ci prende, ci commuove  e ci invita a riflettere, come i geni sanno fare. Da non perdere, sino al 26 febbraio.

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